Rapporto dirigenziale: limiti al diritto di critica nei confronti dell’imprenditore

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17689 del 2022 del 31 maggio 2022, torna a pronunciarsi sul tema dei limiti del diritto di critica di un dirigente nei confronti della società e della conseguente legittimità del licenziamento intimato quando il datore di lavoro ritenga superamento tale limite.

Il caso posto all’esame della Corte prende le mosse dal licenziamento per asserita giusta causa di un dirigente, direttore generale, che, nel corso del Consiglio di Amministrazione, ha espresso perplessità riguardanti la bozza di bilancio relativa all’anno precedente, prospettando l’astratta configurabilità, in capo a sé e agli altri amministratori, di alcune ipotesi di reato.

A seguito di verifiche tecniche disposte dai vertici aziendali, le riserve manifestate dal dirigente si sono dimostrate infondate e la società, dopo l’avvio di un procedimento disciplinare, ha licenziato il direttore generale per giusta causa.

Il dirigente ha impugnato il licenziamento, salvo vedere respinta la propria contestazione all’atto espulsivo innanzi sia al Tribunale, sia alla Corte di Appello di Brescia. Le due corti di merito, infatti, hanno ritenuto che il diritto di critica nei confronti del datore di lavoro possa essere esercitato legittimamente solo se basato su presupposti veritieri, così come che la facoltà di sollevare perplessità circa il bilancio della società non legittimasse il direttore generale a rendere le stesse pubbliche, nell’ambito della seduta del CdA, nonché a paventare ipotesi di reato potenzialmente configurabili in caso di mancato accoglimento dei rilievi sollevati.

La Corte d’Appello, in particolare, ha ritenuto il licenziamento sorretto da giusta causa, o quanto meno da giustificatezza, rilevando come il dirigente si fosse volontariamente posto in contrapposizione con le scelte adottate dalla società e, quindi, avesse fatto venire meno il rapporto di fiducia tra le parti, tanto che l’infondatezza delle critiche giustificasse il licenziamento.

La Corte di Cassazione ha, tuttavia, giudicato diversamente dai giudici delle due prime istanze, accogliendo le doglianze manifestate dal lavoratore e rinviando la decisione, nel merito, alla Corte di Appello.

La Suprema Corte, innanzitutto, ha ribadito i principi, ormai consolidati in giurisprudenza, in tema di diritto di critica e ha rilevato come lo stesso trovi fondamento non solo nell'art. 21 della Costituzione, ma anche nello Statuto dei Lavoratori, che riconosce il diritto dei lavoratori di manifestare liberamente il proprio pensiero.

In generale, a opinione della predetta Corte, nel rapporto di lavoro l'esercizio del diritto di critica deve essere contemperato con il dovere di fedeltà e con il rispetto di principi generali di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto.

La Corte approfondisce, poi, la tematica con riferimento alle peculiarità connesse alla qualifica dirigenziale, al ruolo di direttore generale e alle implicazioni che ne discendono anche in considerazione delle responsabilità che gli artt. 2392 e 2396 c.c. – norme relative al dissenso manifestato durante riunioni del Consiglio di Amministrazione e alla responsabilità del direttore generale – pongono in capo a tale figura.

Secondo la Corte, l’unico limite al diritto di critica del dipendente che muove una denuncia rispetto a supposti comportamenti illeciti nei confronti del proprio datore di lavoro è ravvisabile nell’ipotesi di calunnia, cioè quando vi è la consapevolezza della falsità di quanto riferito.

In tale ottica, viene rilevato come l’infondatezza della denuncia mossa dal lavoratore non può portare a conseguenze disciplinari, né a sanzioni, in quanto deve essere tutelato il generale diritto di collaborazione del cittadino che ha la facoltà, in ragione del generale e tutelato interesse pubblico, di denunciare fatti che sospetta costituire un illecito.

Nel caso di specie, la Corte rilevava come il direttore generale non abbia nemmeno formalmente sporto denuncia, ma abbia unicamente manifestato, esercitando il proprio diritto di critica, di avere rilevato comportamenti che avrebbero potuto integrare un reato e di averlo fatto nell’ambito della riunione di uno degli organi sociali.

Nel rapporto dirigenziale, poi, il legame fiduciario esistente tra le parti non può determinare alcuna automatica compressione del diritto di critica e il giudice di merito, al fine di stabilire la giustificatezza del recesso, deve procedere a una accurata opera di componimento tra l’obbligo di fedeltà e il diritto di critica stesso, escludendo che l'esercizio di tali diritti possa integrare, di per sé, ragione di giustificatezza del licenziamento.

Al fine di integrare il concetto di giustificatezza, infatti, può rilevare qualsiasi motivo, che sia apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore e che escluda l'arbitrarietà del recesso.

In applicazione di tali principi, la Corte di Cassazione ha concluso che non integra, di per sé, la giustificatezza del licenziamento la condotta del dirigente che eserciti, in maniera non pretestuosa, il diritto al dissenso in sedi proprie, cioè durante il Consiglio di Amministrazione, con modalità non diffamatorie o offensive.

La Corte ha, quindi, ritenuto che se il dirigente estromesso riveste anche la qualifica di direttore generale, la giustificatezza del licenziamento sarà esclusa se il diritto al dissenso viene esercitato nelle sedi opportune, nonché con modalità non diffamatorie.

Il periodo di prova nei contratti di lavoro alla luce del Decreto Trasparenza

Il Decreto Trasparenza, che recepisce la Direttiva UE 2019/1152 relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell'Unione Europea, introduce significative novità su alcuni istituti fondamentali del diritto del lavoro quali, ad esempio, il periodo di prova, che non può essere superiore a sei mesi, salva la durata inferiore prevista dalla contrattazione collettiva.

Nel nostro ordinamento, la disposizione che definisce il periodo di prova è l’art. 2096 del Codice Civile, mentre, per quanto riguarda la sua quantificazione, bisogna far riferimento al contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro.

Secondo la predetta disposizione codicistica, infatti, la determinazione della durata del patto di prova è rimessa alla decisione delle parti, seppure nei limiti fissati dal contratto collettivo.

La nuova disciplina introdotta dal Decreto Trasparenza, D.lgs. n. 104 del 27 giugno 2022, non abroga o modifica la norma del Codice Civile; pertanto, oltre a restare valide le prescrizioni del predetto articolo, sono “salve”, altresì, le ricostruzioni interpretative elaborate dalla giurisprudenza sulla base della stessa.

Come noto, l’inserimento del periodo di prova nel contratto di lavoro permette alle parti contraenti di valutare la convenienza reciproca, sotto l’aspetto lavorativo, economico, di compatibilità caratteriale, della stabilizzazione del rapporto di lavoro.

Il patto di prova deve avere forma scritta ed essere sottoscritto in un momento antecedente o contestuale rispetto alla conclusione del contratto di lavoro, pena la nullità del patto stesso. Nel patto di prova devono essere indicate con precisione le mansioni affidate al lavoratore ai fini della prova, il ruolo che questi andrà a ricoprire, nonché la durata del periodo di prova stesso.

Le parti del contratto sono tenute a consentire, l’una, e a effettuare, l’altra, l’attività che forma oggetto del patto di prova. Durante il periodo di prova, ciascuna delle parti può, tuttavia, recedere dal contratto senza obbligo di preavviso.

Raggiunto il termine previsto, se nessuna delle parti esprime la volontà di recedere dal rapporto, la prova si ritiene automaticamente superata e il contratto prosegue in via definitiva, senza che sia necessario provvedere ad alcuna ulteriore formalità.

Il Decreto Trasparenza prevede, quindi, espressamente all’articolo 7, primo comma, che, ove sia previsto, il periodo di prova non possa essere superiore a sei mesi, salva la durata inferiore prevista dalle disposizioni dei contratti collettivi.

Il secondo comma dell’articolo interviene, poi, sul patto di prova apposto nei contratti a termine, fattispecie che sembra riferirsi anche al lavoro in somministrazione, stabilendo che nell’ambito di tali rapporti il periodo di prova debba essere determinato in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni affidate al lavoratore in prova. In caso di rinnovo del contratto, invece, per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto a un nuovo periodo di prova.

Il terzo comma dell’articolo 7, infine, stabilisce che in presenza di eventi che interrompono il rapporto, quali, ad esempio, la malattia, l’infortunio, il congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova deve essere prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza.

Queste le novità introdotte dalla nuova normativa che, come anticipato, recepisce una disciplina europea che ha come scopo di garantire ai cittadini comunitari condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili.

Nulla osta per l’ingresso in Italia di lavoratori extracomunitari che operano da remoto (c.d. nomadi digitali)

L’Italia agevola l’ingresso dei cittadini di Paesi terzi che decidano di lavorare nel territorio nazionale, per un periodo di tempo determinato, svolgendo l’attività lavorativa da remoto.

Il fenomeno del c.d. “nomadismo digitale” trova ora collocazione anche all'interno della normativa Italiana.

Come ormai noto, la crisi sanitaria, in combinazione con il progresso tecnologico, ha portato alla diffusione di soluzioni organizzative che contemplano il ricorso al lavoro agile o lo svolgimento dell'attività di lavoro da remoto (c.d. remote working).

Si tratta di un processo avviato da tempo al quale l'emergenza da Covid-19 ha impresso una sensibile accelerata.

L'introduzione a livello normativo della figura del c.d. “nomade digitale”, cioè il lavoratore che svolge la propria attività in regime di lavoro subordinato, o autonomo, da qualsivoglia luogo, utilizzando dispositivi digitali, è un segnale di tale processo.

La definizione del nomade digitale è stata, infatti, inserita nella legge di conversione del decreto Sostegni ter (Legge n.25/2022), pubblicata il 28 marzo 2022 in Gazzetta Ufficiale, che ha aggiunto questa peculiare categoria ai casi particolari per gli ingressi per lavoro previsti dall'art. 27 del Testo Unico Immigrazione (D. Lgs n.286/1998).

L’articolo 6 quinquies della predetta legge n°25 del 2022 permette l’ingresso agevolato di cittadini extra UE che decidono di lavorare in Italia, per un determinato periodo, svolgendo la propria attività da remoto.

Come espressamente precisato dall'art. 27, comma 1 sexies, del D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, inserito in forza della norma in questione, i c.d. “nomadi digitali” sono "cittadini di un Paese terzo che svolgono attività lavorativa altamente qualificata attraverso l'utilizzo di strumenti tecnologici che consentono di lavorare da remoto in via autonoma ovvero per un'impresa anche non residente nel territorio dello Stato italiano".

Si tratta di una disposizione a favore di lavoratori altamente qualificati, autonomi o subordinati, in grado di lavorare, da remoto, anche per imprese non residenti in Italia e per i quali sarà necessario ottenere unicamente un visto d’ingresso, specifico, di durata non superiore a un anno.

L’ottenimento del visto è comunque condizionato alla disponibilità, da parte del lavoratore, di un’assicurazione sanitaria e al rispetto degli adempimenti fiscali e contributivi previsti del nostro ordinamento.

La principale novità introdotta è, quindi, la mancanza della richiesta dell’autorizzazione al lavoro, c.d. “nulla osta”, prevista per la maggioranza delle procedure di ingresso per fini lavorativi dal Testo Unico sull'immigrazione.

La disciplina generale del predetto Testo Unico, infatti, prevede che i cittadini di Paesi che non appartengono all’Unione Europea possono accedere al mercato del lavoro italiano solo se in possesso di regolare permesso di soggiorno e dopo aver sottoscritto un contratto di soggiorno con il datore di lavoro.

L’ingresso, inoltre, deve avvenire nel rispetto delle quote annuali stabilite in favore dei lavoratori subordinati non stagionali e autonomi dal Decreto Flussi e terminati i controlli da parte della questura e della direzione territoriale del lavoratore il lavoratore può ottenere il visto di ingresso per il lavoro.

Per i lavoratori digitali, invece, viene disposta una deroga al sistema delle quote annuali del predetto decreto; quindi, tali lavoratori stranieri possono soggiornare e lavorare in Italia non solo senza necessità di nullaosta, ma prescindendo dal rispetto dei flussi di ingresso fissati ogni anno.

Le novità recentemente introdotte sembrano voler dare risposte concrete alle nuove necessità dei lavoratori di un mercato del lavoro globale, nonché agevolare l’ingresso di talenti e professionisti stranieri nel nostro Paese.

Va, tuttavia, segnalato che a tale semplificazione in termini di requisiti per l’ingresso nel nostro Paese non sia corrisposta una contestuale regolamentazione degli aspetti fiscali e previdenziali connessi alla presenza del lavoratore straniero in Italia. Tali elementi dovranno, quindi, essere analizzati con cura, in base alla normativa ordinaria dettata in caso di lavoro temporaneo di un cittadino estero nel nostro territorio.

Le sorti dello smart working dopo la fine dell’emergenza sanitaria.

Nonostante lo stato di emergenza sia cessato lo scorso 31 marzo, il legislatore continua ad avvalersi del lavoro agile quale fondamentale misura anti-contagio, almeno, certamente, sino al prossimo 31 agosto 2022. Quali saranno le sorti dell’istituto dopo lo spirare di tale scadenza?

Dopo la fine del periodo emergenziale, è sempre più oggetto di dibattito il tema dello smart working e dell'applicazione che esso avrà nel prossimo futuro.

L'esperienza di lavoro da remoto forzata è stata lo stimolo per molte realtà aziendali per introdurre nuovi progetti di smart working, portando a una significativa diffusione di tale modalità di lavoro, poco o per nulla utilizzata in gran parte delle aziende italiane nel periodo pre-pandemico.

La disciplina nazionale, tuttavia, è stata varata già nel 2017, con la Legge n. 81, e prevede la sottoscrizione di un accordo scritto tra datore di lavoro e dipendente che stabilisca durata, condizioni del recesso, modalità di esecuzione della prestazione, strumenti tecnologici utilizzati, nel rispetto del diritto alla disconnessione. Necessario è quindi il consenso del dipendente allo svolgimento da remoto della prestazione di lavoro.

Per far fronte all’emergenza epidemiologica, il Governo ha deciso di derogare a tale normativa, prevedendo un sistema più agile per permettere alle imprese di utilizzare tale modalità di svolgimento della prestazione.

È stata, infatti, introdotta una procedura semplificata che non richiede la stipula di un accordo scritto con il lavoratore e che si basa esclusivamente sull’invio di modulistica predefinita da compilare e inviare tramite l’applicativo informatico reso disponibile dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali per comunicare l’elenco dei lavoratori coinvolti.

La legge di conversione n. 52/2022 del Decreto Riaperture (D.L. n. 24/2022) ha recentemente prorogato i termini di utilizzo di tale procedura di comunicazione del lavoro agile, attuato cioè a prescindere dalla sottoscrizione dell’accordo individuale con il dipendente, e ha riproposto misure a favore dei lavoratori fragili.

È stata, infatti, prorogata, sino al 31 agosto 2022 la possibilità per le imprese operanti nel settore privato di utilizzare il regime semplificato di comunicazione, senza quindi dover allegare alla stessa copia degli accordi individuali sottoscritti con i singoli lavoratori.

Inoltre, il testo ha previsto la proroga sino allo scorso 30 giugno 2022 del diritto dei dipendenti “fragili”, pubblici e privati, di svolgere la prestazione lavorativa in modalità agile quando ciò sia compatibile con le caratteristiche della prestazione medesima.

Con il Protocollo di aggiornamento delle misure per il contrasto al Covid negli ambienti di lavoro privati del 30 giugno 2022, poi, è stato ulteriormente ribadito l’incoraggiamento, pur dando atto del venir meno dello stato di emergenza, a ricorrere al lavoro agile, quale strumento di contrasto alla diffusione del virus.

Allo scadere dei predetti termini, quindi, come prevede la normativa nazionale, torneranno a essere valide le regole di cui alla Legge n. 81 del 2017, comprensibilmente “sacrificate” negli ultimi anni per garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro e quindi la riduzione delle occasioni di contatto interpersonale per prevenire il diffondersi della pandemia.

Sono, peraltro, stati depositati in Parlamento alcuni disegni di legge volti a modificare la predetta legge al fine di modernizzare l'istituto e renderlo più simile alle modalità con cui nell'ultimo biennio esso è stato gestito dalle imprese e percepito dai lavoratori.

Il modello attuale, infatti, prevede quale requisito essenziale che gli accordi individuali recepiscano quanto eventualmente definito dagli accordi collettivi sul lavoro agile, con efficacia vincolante quantomeno per i datori di lavoro rientranti nel campo di applicazione di tali accordi.

È stringente la necessità di fornire delle risposte alle imprese affinché possano al meglio organizzare il lavoro ed essere certe di come esercitare il potere datoriale nei confronti dei lavoratori stessi, con particolare riferimento ai poteri di controllo e al diritto alla disconnessione.

Si auspica che presto vi possa essere un quadro normativo nazionale aggiornato in considerazione dell’evoluzione avvenuta negli ultimi due anni all’interno delle imprese italiane, essendo, ormai, divenuto il lavoro agile parte integrante del rapporto datore-lavoratore.

Imponibilità delle somme percepite a titolo di danno da perdita di chance professionali

In tema di demansionamento e perdita di chance, le somme liquidate dal Tribunale, a seguito della lesione della capacità professionale del lavoratore, sono da considerarsi non imponibili, in quanto configurabili come danno emergente e, quindi, volte a risarcire la perdita economica subita dal patrimonio del lavoratore.

Secondo quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate con l’Interpello n. 185 del 2022, le somme liquidate al dipendente a seguito dell’accertamento, in sede giudiziale, della lesione della capacità professionale (c.d. danno da perdita di chance) sono da considerarsi non imponibili in quanto configurabili come danno emergente e, quindi, volte a risarcire la perdita economica subita dal patrimonio del danneggiato.

Per comprendere la portata di tale indicazione occorre rammentare che, in linea generale, l'art. 51 del TUIR afferma il principio secondo il quale tutto ciò che il datore di lavoro eroghi al proprio dipendente in relazione al rapporto di lavoro debba essere tassato; il reddito prodotto, infatti, è classificato come reddito di lavoro dipendente, cioè reddito generato da un lavoratore subordinato ai sensi dell'art. 2094 c.c.

La predetta disposizione deve tuttavia essere coordinata con quanto disposto dall’articolo 6, comma 2, del Testo Unico delle Imposte sui redditi che stabilisce che “i proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti”.

La predetta norma afferma che qualsiasi compenso per poter essere considerato reddito, deve aver prodotto una ricchezza in capo al soggetto beneficiario; quindi, non può considerarsi reddito ciò che è un puro risarcimento patrimoniale.

Sulla base di tale principio, non risultano, dunque, imponibili le indennità risarcitorie erogate al fine di reintegrare il patrimonio del lavoratore e di risarcire la perdita economica subita (cd. danno emergente), mentre le somme corrisposte al fine di sostituire mancati guadagni (cd. lucro cessante) hanno rilevanza reddituale.

Con particolare riferimento al danno causato dal demansionamento, ricordiamo che lo stesso può essere di tipo patrimoniale, quale mancata acquisizione di capacità professionale, impoverimento delle stesse e perdita di chance professionali, o non patrimoniale, quale possibile lesione dell'integrità psico-fisica, danno esistenziale (un pregiudizio capace di alterare le abitudini del lavoratore che lo porta a compiere scelte personali diverse rispetto a quelle che sarebbero espressione della propria personalità) e lesione all'immagine professionale.

L’Agenzia delle Entrate, in tema di danno da perdita di chance, ossia connesse alla privazione della possibilità di sviluppi o progressioni nell'attività lavorativa, riprende la recente statuizione della Corte di Cassazione che, con ordinanza n. 3632 del 7 febbraio 2019, ha ribadito che “(…) invero, il titolo al risarcimento del danno, connesso alla “perdita di chance”, non ha natura reddituale, poiché consiste nel ristoro del danno emergente dalla perdita di una possibilità attuale; ne consegue che la chance è anch’essa una entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno attuale e risarcibile, qualora si accerti, anche utilizzando elementi presuntivi, la ragionevole probabilità della esistenza di detta chance intesa come attitudine attuale” (Cass. n. 11322/2003).

Fondamentale è, in ogni caso, ai fini della risarcibilità del danno, l’elemento della prova dello stesso, sia per quanto riguarda la sua esistenza sia per quanto attiene alla sua entità.

Con la sentenza n. 6572 del 2006, così come ripresa dall’Agenzia, la Corte di Cassazione ha, infatti, ribadito che il risarcimento «non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l'esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo. Nella stessa logica anche della perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell'interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché - fermo l'inadempimento - l'interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell'impegno assunto di svolgere l'attività che gli viene richiesta dal datore».

L’interpello in commento dell’Agenzia delle Entrate deve, quindi, ritenersi in linea con i precedenti giurisprudenziali in materia, avendo ribadito che le somme liquidate al lavoratore per lesione della capacità professionale da perdita di chance, di cui è stata accertata l’esistenza in un precedente giudizio, non sono imponibili, poiché sono volte a risarcire la perdita economica subita del dipendente demansionato.

I contratti di somministrazione di lavoro sulla scia della normativa emergenziale.

Nuova proroga per i lavoratori assunti a tempo indeterminato dalle agenzie di somministrazione, in missione a tempo determinato presso le aziende utilizzatrici: slitta al 30 giugno 2024 l’entrata in vigore del limite di utilizzo per un massimo di 24 mesi.

Con l’art. 12-quinquies della legge di conversione del c.d. “Decreto Energia” (D.L. n°21 del 2022, convertito con modifiche dalla L. n°51 del 2022), è stata ulteriormente prorogata, sino al 30 giugno 2024, la possibilità per le agenzie di somministrazione di inviare lavoratori somministrati a tempo determinato per periodi superiori a 24 mesi senza che ciò porti alla costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in capo all’utilizzatore.

Ricordiamo che la somministrazione a tempo determinato di lavoratori assunti a tempo indeterminato dalle agenzie è una particolare forma di “prestito di manodopera”, con il quale l’agenzia e l’impresa utilizzatrice concordano una somministrazione a termine di lavoratori, che viene poi eseguita dall’agenzia stessa con l’utilizzo di personale assunto a tempo indeterminato.

Il lavoratore viene assunto a tempo indeterminato dall’agenzia per il lavoro, beneficiando delle tutele che offre la contrattazione collettiva di settore e fruendo di un contratto che ha una durata superiore alla singola missione. Le imprese utilizzatrici, dal canto loro, possono coprire fabbisogni temporanei di manodopera senza la necessità di impegnarsi per periodi più lunghi rispetto a tale esigenza.

La novità introdotta dalla predetta normativa implica che solo a decorrere dal 1° luglio 2024 torneranno in vigore le regole di cui al D.lgs. n°81 del 2015, così come modificato dal c.d. “Decreto Dignità”, che prevedono che dopo 24 mesi di utilizzo del dipendente somministrato, l’utilizzatore sia tenuto ad assumere quest’ultimo alle proprie dipendenze con contratto a tempo indeterminato.

Ricordiamo che il precedente termine di validità della deroga alle regole ordinarie oggi prorogato, 31 dicembre 2022, era stato introdotto proprio in sede di conversione in legge del c.d. “Decreto Sostegni ter” (D.L. n°4 del 2022), sulla scia della normativa emergenziale introdotta per fronteggiare l’emergenza da Covid-2019.

Le norme emergenziali hanno, infatti, sensibilmente alleggerito i numerosi vincoli che, proprio a partire del citato Decreto Dignità, sono state disposte in materia di contratto a tempo determinato e somministrazione a termine con il dichiarato fine di agevolare, da una parte, il mantenimento dei livelli occupazionali e, dall’altra, la flessibilità necessaria alle aziende in un periodo di notevole stress organizzativo e finanziario.

Le stesse associazioni datoriali e le rappresentanze dei lavoratori non hanno mancato di sottolineare come la reintroduzione del limite legale sopra descritto, anche se differita di ulteriori 18 mesi, comporterà, inevitabilmente, il rischio della perdita dell’occupazione per un numero elevatissimo di lavoratori a termine, a fronte di un turn over “obbligato” generato da tale vincolo legale.

Pertanto, a nostro avviso, la proroga in questione, piuttosto che un rimedio risolutivo al problema, in realtà, pare avere quale unico effetto quello di rimandarne una soluzione definitiva. Più in generale, si tratta dell’ennesima occasione persa dal Legislatore per abbandonare una visione alquanto demagogica del contratto di somministrazione di manodopera, che, nella più classica delle eterogenesi dei fini, per “combattere la precarietà del lavoro”, di fatto, espone i lavoratori somministrati alla perdita di un’occupazione fornita di ampie tutele legali e collettive.

La risoluzione del rapporto di lavoro dovuta all’assenza ingiustificata del lavoratore.

La condotta del dipendente che si assenta dal lavoro senza giustificare la propria assenza, omettendo di riscontrare le comunicazioni inviategli dal datore di lavoro che lo esortano al rientro in azienda, è censurabile in quanto tale agire ha come fine ultimo quello di imporre al datore di lavoro di procedere con il licenziamento e così ottenere il beneficio della Naspi.

Assentarsi dal lavoro senza fornire alcuna giustificazione per indurre l’azienda ad adottare il provvedimento espulsivo del licenziamento per assenza ingiustificata e, così, ottenere il beneficio della Naspi, è – in base alla recente giurisprudenza di merito – una condotta da censurare.

La stessa, infatti, comporta una spesa ingiustificata sia per il datore di lavoro, che è tenuto al pagamento del c.d. “ticket licenziamento”, sia per lo Stato, che eroga l’indennità di disoccupazione a favore di un soggetto che non si trovi, di fatto, in uno stato “involontario” di non occupazione.

In tali casi, infatti, si dovrebbe ritenere chetale comportamento possa integrare gli estremi di una risoluzione per fatti concludenti.

Recentemente, il Tribunale di Udine, sezione lavoro, con la sentenza del 27 maggio 2022, si è pronunciato proprio sul caso di un dipendente che si è assentato da lavoro, senza fornirne alcuna giustificazione, al fine di spingere il datore a licenziarlo per ottenere l’indennità di disoccupazione.

Il Tribunale ha condannando la predetta condotta, ravvisando nel comportamento del lavoratore la risoluzione di fatto del rapporto e ciò a prescindere dal rispetto delle procedure telematiche delle dimissioni di cui all’articolo 26, del D.lgs. n. 151/2015.

Il Giudice ha dato rilevanza alle circostanze che lasciavano trasparire la volontà del lavoratore di non dare più seguito al contratto di lavoro in quanto gli atteggiamenti tenuti facevano presumere che l’intento perseguito fosse unicamente quello di conseguire illegittimamente la Naspi, riconosciuta, come noto, solo in ipotesi di disoccupazione involontaria.

Dal punto di vista normativo, in tema di dimissioni, la legge prevede che le stesse, nonché le risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro, debbano essere rassegnate, a pena di inefficacia, solo con modalità telematiche (articolo 26, D.lgs. n.151/2015).

La predetta norma, a opinione del Tribunale di Udine, non può che disciplinare la sola ipotesi di una manifestazione della volontà risolutiva del lavoratore, rimanendo escluso dal suo campo applicativo il caso delle dimissioni implicite per comportamento concludente.

Inoltre, il Giudice osserva come la previsione contenuta nell’art. 26 non determina l’abrogazione dei principi contenuti negli articoli 2118 e 2119 c.c., relativi alla libera recedibilità dal rapporto di lavoro a opera del lavoratore e che prevedono che non sia necessario palesare la volontà di recedere in un atto formale, ma sia sufficiente la manifestazione tramite condotte dalle quali emerga l’effettivo volere del soggetto.

Nonostante, poi, la previsione della legge delega n. 183 del 2014, che già aveva previsto la necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente, il D.lgs. n. 151/2015 si è limitato a regolamentare il solo istituto delle dimissioni telematiche, omettendo di stabilire una regola in materia di risoluzione per fatti concludenti.

Il silenzio della norma, però, non può far ritenere che tale risoluzione sia preclusa dall'attuale normativa.

Segnaliamo, inoltre, che, già nel 2020, il medesimo Tribunale (sentenza n. 106/2020 del 30 settembre 2020) avesse avuto modo di pronunciarsi in merito alla stessa tipologia di condotta. In tale decisione, in particolare, il Giudice aveva stabilito che il lavoratore, il quale con assenze continue e non giustificate aveva costretto il datore di lavoro a procedere al licenziamento per giusta causa, è tenuto a restituire la somma erogata a titolo di ticket di ingresso alla Naspi.

Secondo il Tribunale, il ticket per il licenziamento è, infatti, un onere che la società non deve sopportate nelle ipotesi in cui il lavoratore, anziché dimettersi, pone volutamente l’azienda nella posizione di risolvere il rapporto.

Le pronunce del Tribunale di Udine, oggetto di odierno esame, sottolineano come, pur nella vigenza dell’art. 26, del D.lgs. n. 151/2015, la risoluzione per fatti concludenti del rapporto di lavoro sia ancora invocabile dall'azienda che intenda sostenere che il rapporto di lavoro sia cessato per iniziativa del lavoratore, al quale, pertanto, non spetterà alcuna indennità per il successivo stato di disoccupazione (volontaria).

Violazione del diritto di esclusiva nel rapporto di agenzia: danno risarcibile anche dagli agenti concorrenti.

L'agente, il cui diritto di esclusiva sia stato violato dall’intercettazione di clienti da parte di agenti incaricati di operare in una diversa zona dal medesimo preponente, ha diritto di ottenere il risarcimento dei danni sia di natura contrattuale, nei confronti del preponente, sia di natura extracontrattuale, verso gli agenti concorrenti.

In tema di agenzia, il diritto di esclusiva, previsto dall’art. 1743 c.c., rappresenta un elemento naturale, ma non essenziale del contratto; pertanto, esso può essere validamente derogato dalla volontà delle parti.

La norma, in particolare, prevede che: “Il preponente non può valersi contemporaneamente di più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo di attività, né l'agente può assumere l'incarico di trattare nella stessa zona e per lo stesso ramo gli affari di più imprese in concorrenza tra loro”.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14763 del 2022, si è pronunciata in merito al caso di un agente che ha chiesto il risarcimento dei danni subiti a causa della violazione del suo diritto di esclusiva sia nei confronti del preponente, sia degli agenti appartenenti alla stessa rete vendita, ma assegnatari di altre zone.

La Corte di Appello aveva, infatti, ritenuto che non fosse configurabile alcuna responsabilità in capo al preponente, in relazione allo sconfinamento territoriale da parte di agenti di zone limitrofe rispetto a quella del ricorrente e che la condotta degli agenti concorrenti avrebbe legittimato solo singole azioni autonome dell'agente.

Tuttavia, come visto, l'art. 1743 c.c. ove non venga derogato dalle parti, vincola contrattualmente il preponente a non concludere direttamente gli affari oggetto dell’attività di impresa e a non avvalersi dell’opera di altri agenti per la promozione nell’ambito della zona assegnata all’agente in esclusiva.

La giurisprudenza è concorde nel ritenere che l'inadempimento dell'obbligo di esclusiva sia da considerarsi grave e che, in quanto tale, possa determinare la risoluzione del contratto, con responsabilità della parte che abbia violato l'esclusiva per il risarcimento dei danni.

Tanto precisato, in ragione del fatto che gli obblighi delle parti inerenti all’esclusiva derivano dal contratto e non sono di natura normativa – tanto che, come detto, ben possono essere esclusi pattiziamente – la loro violazione determina l’insorgere di una responsabilità di natura contrattuale in capo alla parte inadempiente.

Inoltre, la Corte ha ribadito il principio secondo cui: “l’agente la cui esclusiva sia stata lesa dalla captazione dei clienti compiuta da agenti incaricati per una diversa zona dalla medesima preponente, ha diritto al risarcimento dei danni contrattuali nei confronti della preponente ed al risarcimento dei danni extracontrattuali nei confronti degli agenti concorrenti (v. Cass. n. 26062 del 2013)”.

Vi è, quindi, in caso di violazione del diritto di esclusiva, anche l’esistenza di una responsabilità di tipo extracontrattuale, che l’agente può far valere nei confronti degli agenti che hanno operato nella zona assegnatagli dalla stessa preponente.

Nel caso di specie, quindi, accogliendo il ricorso proposto dall’agente, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata, avendo la corte territoriale, in violazione degli enunciati principi ed in virtù di una erronea interpretazione dell’art. 1743 c.c., ritenuto non configurabile una responsabilità contrattuale della società preponente per violazione del diritto di esclusiva realizzato dagli agenti delle zone limitrofe.

Tempestività dell’invio delle comunicazioni ai lavoratori nei licenziamenti collettivi

La norma applicabile in tema di licenziamenti collettivi prevede dei ritmi serrati e delle tempistiche studiate con la finalità di procedimentalizzare il percorso che conduce alla definizione dell’esubero di forza lavoro, assicurando la dovuta informazione alle rappresentanze sindacali affinché le stesse possano verificare il rispetto dei diritti di tutti i soggetti coinvolti. Proprio uno degli elementi temporali che compongono tale disciplina è stato oggetto di una recente disamina da parte della Suprema Corte di Cassazione, che si è espressa sul tema nei termini di seguito analizzati.   

La Legge n. 223/1991 (norma di riferimento per la disciplina dell’istituto del licenziamento collettivo) prevede, tra le altre cose, una specifica regolamentazione della procedura da adottare nel caso di licenziamenti plurimi comminati in un determinato arco temporale, con una tempistica ben definita posta a tutela della corretta esecuzione dei singoli atti che compongono la procedura stessa.

In questo senso, è bene ricordare che sia obbligatorio eseguire la procedura prevista per i licenziamenti collettivi ogni qualvolta un datore di lavoro che occupi più di 15 dipendenti in una singola unità produttiva, intenda risolvere il rapporto di lavoro di almeno 5 di questi nell’arco di 120 giorni (che decorrono dalla comunicazione del primo licenziamento); inoltre, la Legge n. 223/91 è il riferimento normativo anche per le aziende ammesse al trattamento di Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria, con previsione di lavoratori in esubero.

Con particolare riferimento al comma 9 dell’art. 4 della predetta legge, – previsione sulla quale si è espressa di recente la Suprema Corte di Cassazione – esso prescrive come necessario, quale atto finale della procedura in discussione, l’invio alle autorità e rappresentanze sindacali competenti di una comunicazione scritta relativa alla dichiarazione finale di esubero, la quale è condizione essenziale per la legittima comminazione del licenziamento nei confronti dei singoli lavoratori.  

Elemento centrale della previsione in argomento è, dunque, la prescrizione in forza della quale, entro il limite massimo di sette giorni dalla iniziale comunicazione dei recessi, il datore di lavoro è obbligato a comunicare un puntuale e dettagliato elenco dei lavoratori che siano stati destinatari di tale provvedimento (che comprenda anche l’indicazione dei criteri di scelta applicati al fine di giungere a tale decisione) all’Ufficio regionale del lavoro, alla Commissione regionale per l'impiego e alle associazioni di categoria.

In quest’ottica,  la Suprema Corte ha ritenuto che la contestualità tra la comunicazione del licenziamento ai lavoratori e, al contempo, alle organizzazioni sindacali e ai competenti uffici amministrativi, sia un elemento di tale rilevanza che, ove se ne rilevi l’assenza, la comunicazione stessa dovrà essere dichiarata inefficace, con la sola eccezione dei casi nei quali venga data prova di un ritardo del tutto incolpevole e dovuto a cause di forza maggiore che ne abbiano impedito la tempestiva trasmissione.

Nella recente pronuncia n. 17694/2022, infatti, la Corte di Cassazione si è espressa sul rispetto del menzionato periodo e, in particolare, è stato ritenuto che l’importanza che tale informazione raggiunga i propri destinatari in maniera tempestiva ed esauriente sia indispensabile ai fini del rispetto della trasparenza informativa, della completezza contenutistica e della rigida scansione procedurale prevista dalla norma di riferimento in tema di licenziamenti collettivi.  

In particolare, hanno precisato gli Ermellini, il rispetto di tale tempistica avrebbe il compito, fondamentale, di “consentire alle organizzazioni sindacali (e, tramite queste, anche ai singoli lavoratori) il controllo tempestivo sulla correttezza procedimentale dell’operazione posta in essere dal datore di lavoro, anche al fine di acquisire ogni elemento di conoscenza e non comprimere lo spatium deliberandi riservato al lavoratore per l’impugnazione del recesso nel termine di decadenza di cui all’art. 6, L. n. 604/1966”.

Pertanto, deduce la Suprema Corte, che non comporti alcuna inversione o annullamento delle responsabilità dei soggetti coinvolti il fatto che i dipendenti destinatari della comminazione del licenziamento possano venirne a conoscenza in un secondo momento, successivo al termine settimanale indicato dalla norma, proprio perché ciò che la norma intende tutelare è la procedimentalizzazione, entro fasi e tempistiche predeterminate, dell’intenzione datoriale, al fine di consentire ai soggetti coinvolti di espletare le proprie funzioni entro un arco temporale definito all’interno della scandita sequenza di atti disciplinata dalla norma di riferimento, sì da evitare possibili ripercussioni negative sui singoli lavoratori licenziati.

Nuovo DURC di congruità nel settore edilizia e conseguenze sanzionatorie

È di recente previsione l’istituto del DURC di congruità, la cui creazione ha l’obiettivo di assicurare la regolarità della gestione degli appalti (sia pubblici che privati, seppur con requisiti diversi per l’uno o per l’altro caso) con particolare riferimento agli adempimenti che, quotidianamente, i soggetti coinvolti sono chiamati a soddisfare al fine di mantenere una posizione di conformità alle norme vigenti.  

Sono in vigore dal 1° novembre 2021 le previsioni di cui all’art. 8, c. 10-bis del D.L. n. 76/2020 (convertito in L. n. 120/2020 e mod. Decreto n. 143/2021). Il contenuto di tali norme ha introdotto il nuovo Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC) di congruità, finalizzato al contrasto del lavoro irregolare negli appalti e del c.d. “dumping contrattuale” (l’applicazione, cioè, di CCNL diversi da quello dell’edilizia a danno del trattamento economico e normativo dei lavoratori e, in ultima istanza, della regolare concorrenza).

L’obbligo di adoperarsi al fine del suo ottenimento sorge in capo alle ditte private che operino nell’ambito di cantieri di valore superiore a 70.000 Euro, nonché le aziende che prestino la propria attività nel settore degli appalti pubblici (senza soglie minime di valore del cantiere).

Nel caso di appalti di natura privata, la richiesta di rilascio del DURC di congruità deve essere avanzata prima dell’erogazione del saldo finale da parte della società committente e, dunque, a lavori finiti e al momento della chiusura del cantiere. Ove, invece, il cantiere sia finalizzato a un’opera pubblica, la congruità dell’incidenza della manodopera sull’opera complessiva è richiesta dal committente o dall’impresa affidataria in occasione della presentazione dell’ultimo stato di avanzamento dei lavori da parte dell’impresa, prima di procedere al saldo finale dei lavori. In ogni caso, trattandosi di un documento il cui rilascio è sottoposto alla verifica dei dati forniti dalle aziende coinvolte e all’esito di una attività meramente compilativa dell’attività quotidiana all’interno del cantiere, si tende a raccomandare un continuo aggiornamento dello stesso, tenendo conto delle singole giornate di lavoro e dell’apporto quotidiano che le diverse ditte forniscono.

Da un punto di vista pratico, il raggiungimento di tali obiettivi è previsto dalla legislazione vigente attraverso la verifica, eseguita dalle Casse edili territorialmente competenti, della corrispondenza tra il costo del lavoro sostenuto dal datore per la manodopera impiegata e gli indici minimi di congruità riferiti alle singole categorie di lavori; questi ultimi elementi sono riportati nella Tabella allegata all’Accordo collettivo del settore edile, datato 10 settembre 2020.

Al fine di equiparare correttamente i dati del cantiere di riferimento con quelli della tabella testé citata, all’azienda committente, unica effettiva responsabile della congruità, è richiesto di dichiararne alla Cassa edile territorialmente competente, attraverso il portale unico online a predisposto a tale scopo: la data di apertura, il valore dell’opera complessiva, gli elementi della committenza, le generalità delle imprese subappaltatrici, delle ditte sub-affidatarie, nonché dei lavoratori autonomi, ove esistenti. A loro volta, le imprese coinvolte dovranno indicare, nella loro denuncia mensile, le ore di manodopera eseguite nello specifico cantiere di riferimento, al fine di alimentare il contatore di congruità visibile dall’impresa affidataria.

Al fine di contrastare potenziali illeciti sul tema, le ultime disposizioni legislative prevedono che venga costituita una Convenzione tra le Istituzioni coinvolte (INL, MLPS, INPS, INAIL e CNCE), nonché la creazione di una banca-dati condivisa che consenta l’accesso agli esiti delle verifiche relative al requisito della congruità e a tutti gli elementi a ciò connessi. Tali indicatori saranno, poi, utilizzati al fine di effettuare i relativi recuperi previdenziali e assicurativi, nonché di programmare eventuali attività di vigilanza e verifiche di competenza dell’INL.

Al riguardo, si sottolinea la sottoscrizione di una ulteriore Convenzione (in data 11 marzo 2021) tra L’INL e la Commissione nazionale delle casse edili Edilcasse (CNCE) la quale prevede, tra l’altro, uno scambio di informazioni e dati tra le due Istituzioni. Tale intesa è volta a garantire la trasparenza e correttezza dei soggetti operanti sul mercato, intervenendo nell’ambito del contrasto al dumping contrattuale e al lavoro irregolare.

Presso il Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili (MIMS), in data 25 ottobre 2021, è, inoltre, stato istituito un Osservatorio nazionale con il compito di vigilare anche sull’applicazione della nuova normativa relativa al DURC di congruità. Fanno parte di tale Osservatorio i rappresentanti del governo, delle principali stazioni appaltanti pubbliche e delle organizzazioni sindacali più rappresentative del settore edile. L’iniziativa mira a garantire i migliori standard di salute e sicurezza dei lavoratori nella realizzazione delle opere previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).

A seguito delle valutazioni operate in base ai dati forniti dalla ditta appaltante e che confermino la congruità tra le risorse utilizzate e quelle adeguate a un cantiere del valore indicato, la Cassa edile territorialmente competente ne rilascia la relativa attestazione, entro 10 giorni dalla presentazione dell’istanza.

Diversamente, ove vengano riscontrate delle incongruenze, la Cassa edile contatterà l’impresa committente e le darà la possibilità di integrare e/o modificare la documentazione fornita entro un tempo massimo di 15 giorni, al fine di dimostrare il raggiungimento della percentuale attraverso i costi eventualmente non registrati. Ove lo scostamento sia uguale o inferiore al 5% rispetto ai valori normalmente prevedibili, tuttavia, l’impresa risulterà comunque regolare previa presentazione di attestazione del Direttore dei lavori che giustifichi lo scarto.

Se, anche all’esito di tali eventuali integrazioni e/o modifiche, la Cassa edile territorialmente competente riterrà non sufficiente l’ulteriore documentazione fornita al fine di rilasciarne il relativo documento attestante la congruità ai parametri vigenti, il DURC di congruità non verrà rilasciato e tale accertamento negativo inciderà sul rilascio dei successivi DURC ordinari. Inoltre, la Cassa edile competente procederà all’iscrizione dell’impresa nella BNI (Banca Nazionale delle imprese irregolari), con l’eventualità che possa bloccare anche i lavori su altri cantieri. Infine, in caso di mancato rilascio del DURC di congruità, gli organi all’interno del preposto sistema di vigilanza saranno allertati da tali esiti, dando ciò potenziale input ad ulteriori processi di controllo sull’attività svolta dal soggetto irregolare.