Rischio interferenziale: la responsabilità del committente in caso di infortunio sul lavoro

In caso di infortunio sul lavoro nell’ambito di un appalto, la cui attività è eseguita nei locali del committente, quest’ultimo, per poter escludere la propria responsabilità, deve dimostrare non solo di aver adempiuto agli obblighi previsti dalla normativa in materia di sicurezza, ma anche di non aver in alcun modo interferito nell’esecuzione dell’appalto.

Con la sentenza n. 25113 del 12 settembre 2025, la Corte di Cassazione ha ribadito che il committente, al fine di poter essere sollevato da qualsiasi responsabilità per l’infortunio di un dipendente della società appaltatrice accorso durante l’esecuzione di lavori presso locali dei quali il committente ha la disponibilità giuridica, deve dimostrare non solo di aver adempiuto agli obblighi di cui alla normativa in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, ma anche dell’assenza di interferenze tra la propria attività e quella dell’appaltatore.

Il caso prende le mosse da un ricorso presentato da un lavoratore di un’impresa che stava eseguendo lavori di manutenzione su un macchinario della società committente, presso i locali di quest’ultima, e che, a seguito di un grave infortunio, ha citato in giudizio le due imprese al fine di ottenere il risarcimento dei danni patiti a seguito di tale evento.

La Corte d’Appello di Venezia ha rigettato la domanda nei confronti del committente, non ritenendo integrato nel caso di specie il rischio c.d. interferenziale.

La Corte di Cassazione, investita della questione, ha chiarito, in continuità con la giurisprudenza più recente, che la committente «che affidi lavori, servizi o forniture ad impresa appaltatrice nell’ambito della propria azienda», presso i propri locali,ha l’obbligo di adempiere agli obblighi imposti dall’art. 26, del D. Lgs. n. 81/2008 e che, in caso di inadempimento, la stessa risponde dell’infortunio occorso ai dipendenti dell’impresa appaltatrice.

La responsabilità del committente non è, quindi, più confinata alle sole ipotesi di ingerenza in concreto nell’operato dell’appaltatore, ma discende già dall’inadempimento degli obblighi specifici di cooperazione, coordinamento e informazione imposti dall’art. 26 del D.Lgs. n. 81/2008 al fine di gestire i rischi interferenziali derivanti dalla compresenza, nel medesimo luogo di lavoro, di dipendenti appartenenti a più imprese.

La sentenza oggi in esame consolida un’interpretazione garantista della responsabilità del committente che, superando il precedente approccio restrittivo incentrato sul concetto di ingerenza in concreto, valorizza la posizione di garanzia del committente che deve assicurare, in ogni caso, la sicurezza dei lavoratori che operano all’interno dei propri locali.

In conclusione, la Corte di Cassazione ha cassato la decisione assunta dai giudici di merito e ha rimesso la causa in decisione alla Corte d’Appello in diversa composizione.

Lavoro transnazionale e previdenza sociale: i chiarimenti offerti dalla CGUE

Con sentenza “Hakamp” del 4 settembre 2025, n. 203/24, la CGUE ha offerto dei chiarimenti interpretativi in senso quantitativo e qualitativo in merito alle disposizioni di rango europeo che individuano la legislazione previdenziale applicabile in caso di lavoro transnazionale svolto da lavoratori in due o più Paesi europei.

Il caso esaminato dalla Corte di Giustizia prende le mosse dal ricorso giudiziale presentato da un lavoratore marittimo, residente nei Paesi Bassi, con datore di lavoro stabilito in Liechtenstein, che ha svolto la propria attività anche in Belgio e in Germania, avverso la decisione del SVB (l’ente di previdenza sociale olandese) di applicare allo stesso il regime di sicurezza sociale olandese per l’anno di riferimento, nonostante l’attività eseguita in quel periodo fosse pari solo al 22% di quella totale, laddove la normativa prevederebbe, ai fini dell’applicazione del regime previdenziale dei Paesi Bassi, il più alto dato del 25%.  Ciò, in considerazione – a latere dell’elemento quantitativo – di ulteriori circostanze “fattuali” quali il Paese di immatricolazione della barca usata per svolgere l’attività, il luogo di residenza del dipendente.

Le Corti di merito olandesi hanno avvallato la posizione dell’ente e, pertanto, il lavoratore ha proposto ricorso dinanzi alla Corte suprema dei Paesi Bassi, ritenendo che le Corti inferiori, nel conferire rilevanza a circostanze ulteriori rispetto ai criteri tipizzati dalla menzionata normativa europea di riferimento (art. 14, par. 8, del Regolamento (CE) 987/2009), l’avessero interpretata impropriamente.

Interpellata al riguardo, la Corte di Giustizia dell’UE ha chiarito che la soglia del 25% di lavoro subordinato, così come gli altri criteri indicati dal Regolamento (CE) n. 987/2009, debbano essere i soli criteri applicati al fine di determinare il luogo di svolgimento della «parte sostanziale» delle attività di lavoro subordinato svolto in due o più Paesi europei – e, con ciò, la legislazione applicabile, in tema di sicurezza sociale, al rapporto di lavoro – senza prendere in considerazione altre circostanze o altri criteri.

La Suprema Corte europea ha ritenuto che il criterio oggettivo, consistente nella soglia minima del 25%, sia utile a offrire maggiori certezze in un contesto, come quello del lavoro transnazionale, svolto in diversi Paesi europei, idoneo a generare complicazioni derivanti dal rischio di applicazione simultanea di diverse normative nazionali.

In conclusione, secondo la Corte europea, tale regola consente di assicurare un maggior coordinamento tra Stati membri in tema di sicurezza sociale al fine di garantire l’esercizio effettivo della libera circolazione delle persone e contribuire, in tal modo, ad incrementare il livello di vita e delle condizioni di lavoro dei lavoratori che si spostano all’interno dell’Unione Europea.

Valida anche per i lavoratori in prova la disciplina delle dimissioni telematiche

Con la pronuncia n. 24991/2025, la Corte di Cassazione ha confermato l’applicabilità, anche ai lavoratori in prova, della disciplina relativa alle dimissioni telematiche – e della revoca delle stesse – prevista ex art. 26, commi 1, 2, 3 e 4, del D. Lgs. n. 151/2015. 

Nel caso di specie, un lavoratore in prova ha incardinato un procedimento dinanzi al giudice del lavoro di Pescara al fine di fare accertare la legittimità e l’efficacia della revoca delle dimissioni, avvenuta entro la tempistica prevista dalla normativa applicata (i.e., sette giorni dalla rassegnazione delle stesse).

Nel ritenere legittima la revoca effettuata nel rispetto dei tempi previsti per legge, il Tribunale di Pescara ha condannato la resistente alla reintegrazione del lavoratore in azienda in regime di prova.

La Corte di Appello ha avvallato tale decisione, ritenendo valida e applicabile anche alle dimissioni rese nel periodo di prova la procedura telematica di rassegnazione e di revoca delle stesse. Invero, secondo la Corte territoriale, l’art. 26, commi 7 e 8-bis, del D. Lgs n. 151/2015, espressamente individua i casi in cui tale procedura non si applica (i.e., in ambito di lavoro domestico, alle dimissioni rassegnate in sede protetta, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni), senza indicare il periodo di prova quale uno di essi.

Pertanto, la società datrice ha proposto ricorso presso la Corte di Cassazione, sostenendo – inter alia – che la disciplina delle dimissioni telematiche non si applichi in caso di prova, come esplicitato nella Circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 12 del 4 marzo 2016.

Al riguardo, la Suprema Corte ha preliminarmente chiarito che le circolari ministeriali costituiscono atti interni all’amministrazione, idonei a uniformare l’azione degli organi amministrativi subalterni ma, in ogni caso, incapaci di creare diritto e vincolare l’interpretazione giudiziale delle norme di legge.

Invero, ritenuta inapplicabile la menzionata circolare ministeriale, la Corte di Cassazione ha rilevato l’assenza di incompatibilità tra la disciplina della prova, che consente a ciascuna parte del rapporto di lavoro di effettuare delle valutazioni inerenti al rapporto medesimo, e la disciplina delle dimissioni telematiche, volta ad arginare i comportamenti abusivi datoriali, accertando, in tal modo, con riferimento al caso di specie, la piena validità ed efficacia della revoca delle dimissioni rese dal ricorrente.

In particolare, la Suprema Corte ha chiarito il principio fondamentale per cui, laddove un documento che non abbia il rango di fonte primaria sia in espresso contrasto con quanto previsto da quest’ultima, è naturale che sarà la fonte di diritto effettiva a dover trovare applicazione, a discapito di quanto eventualmente stabilito in atti a carattere evidentemente solo amministrativo, volti a operare – ove necessario – mera attività interpretativa delle norme di riferimento.

Non v’è dubbio, dunque, che in caso di mancanza di uniformità delle previsioni da implementare nel caso di specie – e, a maggior ragione, laddove venga proposta un’ipotesi derogatoria della norma primaria – sia quest’ultima a dover prevalere su note, circolari e altri atti interni ai singoli enti, utili al funzionamento degli stessi e che, dunque, deve primeggiare su questi ultimi.  

Tra negligenza e insubordinazione del lavoratore: il caso della guardia giurata

Con l’ordinanza n. 23565, del 19 agosto 2025, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di una guardia giurata che, in più occasioni, ha disatteso le istruzioni datoriali sull’uso corretto degli strumenti di servizio. Tali condotte, reiterate e consapevoli, non integrano una mera negligenza, ma una forma di insubordinazione.

Un lavoratore con mansioni di guardia giurata è stato licenziato per giusta causa a seguito di molteplici differenti episodi di mancato rispetto delle disposizioni aziendali – i.e., l’omessa dotazione della radio trasmittente, del giubbotto antiproiettile, l’indossamento di mostrine e manette in assenza di autorizzazione aziendale.

Il lavoratore ha successivamente proposto ricorso dinanzi al giudice del lavoro, il quale ha ritenuto le condotte non sufficientemente gravi da giustificare il provvedimento espulsivo.

In riforma di tale decisione, la Corte d’Appello di Firenze ha valutato come legittimo il licenziamento, ritenendo le condotte, complessivamente considerate, come un’insubordinazione, idonea a giustificare il licenziamento per giusta causa, per via della “deliberata indifferenza rispetto alle prescrizioni datoriali” che caratterizzava ciascuna delle infrazioni commesse.

Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, sostenendo che le condotte contestate integrassero negligenza, non insubordinazione, e che, pertanto, rientrassero tra quelle sanzionabili in via conservativa secondo il CCNL di riferimento. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore.

La Suprema Corte ha rilevato che la censura proposta dal ricorrente richiedesse un riesame dei fatti nel merito, non possibile in sede di Cassazione. Tuttavia, la Suprema Corte ha altresì rilevato che entrambe le corti di merito avessero individuato nelle azioni del lavoratore “una deliberata indifferenza rispetto alle prescrizioni datoriali, tanto da configurare una vera e propria insubordinazione”.

A tal proposito, gli Ermellini hanno ricordato che la nozione di insubordinazione nel rapporto di lavoro subordinato ricomprenda non solo il rifiuto di eseguire disposizioni datoriali, ma anche quei comportamenti – sussistenti, nel caso di specie, secondo la Corte di Appello – che pregiudichino “l’esecuzione ed il corretto svolgimento” delle direttive datoriali “nel quadro della organizzazione aziendale”.

Il lavoratore ha altresì lamentato l’assenza di proporzionalità tra le violazioni contestate e il provvedimento di licenziamento. Anche in questo caso, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la doglianza del lavoratore richiedesse un inammissibile riesame nel merito della questione.

Al contrario, secondo la Suprema Corte, risultano adeguatamente argomentate, e ben oltre la soglia del minimum costituzionale, le motivazioni della Corte di Appello sulla gravità oggettiva e soggettiva della condotta contestata al lavoratore – ossia, la ripetuta violazione arbitraria delle disposizioni datoriali –, tale da giustificarne il licenziamento per giusta causa.

La decisione della Corte di Cassazione rafforza il principio secondo cui l’insubordinazione possa manifestarsi anche attraverso condotte, seppure non apertamente oppositive, comunque idonee a compromettere il corretto svolgimento delle direttive datoriali, nonché l’organizzazione aziendale.

Assistenza scolastica ai figli disabili di lavoratori frontalieri

La Corte di Giustizia dell’Unione ha dichiarato l’illegittimità della norma nazionale che condiziona il godimento di un vantaggio sociale al possesso della residenza nel Paese di riferimento.

Con la sentenza del 10 luglio 2025 (causa C‑257/24), la Corte di giustizia dell’Unione europea ha affermato un principio di particolare rilevanza in materia di parità di trattamento e libera circolazione dei lavoratori: l’aiuto all’inserimento scolastico per i figli minori disabili, previsto dalla normativa nazionale (nel caso di specie, dall’ordinamento tedesco), non può essere negato ai figli di lavoratori frontalieri cittadini dell’Unione per il solo fatto di risiedere in un diverso Stato membro.

Il caso trae origine dal ricorso presentato dai genitori di una minore, cittadina tedesca e irlandese, residente in Belgio, figlia di una lavoratrice frontaliera impiegata in Germania, affetta da disabilità mentale, che aveva beneficiato per diversi anni di prestazioni di assistenza scolastica fornite dal governo tedesco.

Per l’anno scolastico 2021/2022, la richiesta di rinnovo del predetto aiuto era stata, tuttavia, respinta in quanto la legge tedesca prescrive che i beneficiari del servizio debbano essere residenti in Germania e la minore non risiedeva nel territorio nazionale.

Nel giudizio di merito il tribunale tedesco confermava che l’aiuto non costituisse una “prestazione di malattia”, garantita anche ai familiari dei lavoratori ai sensi dell’art. 3, par. 1, lett. a), del Regolamento (UE) n. 883/2004, ma fosse, invece, una forma di “assistenza sociale e medica”, che per espressa previsione del medesimo Regolamento, restava esclusa dal suo ambito di applicazione.

La minore impugnava, quindi, la predetta decisione e il giudice incaricato di decidere, sospendeva il procedimento, rimandando la questione alla Corte di Giustizia dell’UE al fine di chiarire se:

La Corte di Giustizia UE ha statuito che, pur non rientrando l’aiuto tra le prestazioni di sicurezza sociale ai sensi dell’art. 3 del regolamento n. 883/2004, esso costituisce un “vantaggio sociale” ai sensi dell’art. 7, par. 2, del Regolamento (UE) n. 492/2011.

Pertanto, secondo la Suprema Corte europea, subordinare la concessione dell’aiuto al requisito della residenza nel territorio nazionale costituisce una discriminazione indiretta, idonea a svantaggiare i lavoratori frontalieri e a restringere la loro libertà di circolazione.

Tale restrizione, per essere giustificata, deve essere orientata al “conseguimento di un obiettivo legittimo – quale il mantenimento dell’equilibrio finanziario del sistema previdenziale – e non eccedere quanto necessario per raggiungere tale obiettivo”.

Tuttavia, nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che il requisito della residenza ecceda il predetto limite in quanto il lavoratore frontaliero contribuisce finanziariamente al sistema sociale dello Stato membro ospitante e mantiene un legame “reale e sufficiente” con quest’ultimo, idoneo a giustificare l’erogazione della prestazione di aiuto.

Tribunale di Ragusa: legittimo il licenziamento del dipendente che eserciti arbitrariamente la propria prestazione di lavoro in modalità di lavoro agile

Il Tribunale di Ragusa ha ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore, per avere questi reiteratamente e arbitrariamente eseguito la propria prestazione di lavoro in regime di smart working, senza che tra le parti fosse stato sottoscritto un accordo individuale di lavoro agile, rilevando la proporzionalità del provvedimento espulsivo alla violazione commessa.

Nel giudizio oggetto della sentenza dell’11 luglio 2025, il ricorrente, assunto con contratto a tempo indeterminato sin dal 1° marzo 1988, ha impugnato il provvedimento espulsivo datato 22 febbraio 2024, deducendone l’illegittimità per insussistenza dei fatti contestati e per sproporzione della sanzione rispetto alla condotta addebitata.

In particolare, il lavoratore ha rivendicato il proprio diritto allo svolgimento della prestazione in modalità agile, in virtù della normativa emergenziale e dell’asserito possesso dei requisiti previsti dalla legislazione all’epoca vigente (nel caso di specie, l’essere genitore di un figlio minore di 14 anni), rilevando l’assenza di disservizi e conseguenze negative per la società datrice e contestando, di contro, la mancata affissione del codice disciplinare da parte della stessa.

Il licenziamento è stato comminato a seguito di contestazione disciplinare relativa all’utilizzo improprio delle timbrature virtuali da remoto effettuate tramite connessione VPN in assenza di autorizzazione formale allo smart working e, in ogni caso, di alcun accordo a ciò relativo sottoscritto tra il datore e il dipendente. Nella comunicazione di licenziamento, la società ha ritenuto che tale condotta integrasse una modalità arbitraria di esecuzione della prestazione lavorativa, in violazione delle disposizioni contrattuali e del Codice Etico aziendale.

La società convenuta è rimasta contumace.

Il ricorrente ha eccepito la legittimità del proprio operato, richiamando le disposizioni di cui agli artt. 90 D.L. n. 34/2020, 42 D.L. n. 48/2023 e 18-bis D.L. n. 145/2023, sostenendo che, all’epoca dei fatti, la legislazione applicabile prevedeva il lavoro agile come un diritto soggettivo non subordinato ad autorizzazione preventiva, né alla stipula di accordo individuale tra datore di lavoro e lavoratore per i lavoratori che fossero genitori di figli minori di 14 anni (laddove anche l’altro genitore sia lavoratore).

Il Tribunale di Ragusa ha rigettato tale ricostruzione, richiamando la disciplina generale del lavoro agile di cui alla Legge n. 81/2017 e al Protocollo Nazionale del 7 dicembre 2021, sottoscritto presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. In particolare, ha ribadito che lo svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità di lavoro agile presuppone la sottoscrizione di un accordo individuale scritto, tra datore e lavoratore, contenente le modalità di esecuzione della prestazione, le forme di esercizio del potere direttivo e disciplinare, nonché le misure di disconnessione e sicurezza.

Pertanto, secondo il giudice di Ragusa, la decisione del lavoratore di operare da remoto in assenza di tale accordo e di preventiva autorizzazione è illegittima e disciplinarmente rilevante, in quanto lesiva delle disposizioni di legge, contrattuali e aziendali. Invero, il Tribunale ha evidenziato come la reiterazione della condotta (quarantadue timbrature virtuali tra gennaio e ottobre 2023), la consapevolezza dell’illiceità e l’assenza di comunicazioni formali abbiano integrato una violazione grave e intenzionale degli obblighi di diligenza e correttezza.

Inoltre, con riferimento al motivo di ricorso del ricorrente, relativo alla mancata affissione del codice disciplinare, il giudice ha richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui tale adempimento non è necessario quando la condotta sanzionata violi “norme di legge o norme rientranti nel c.d. minimo etico (e, dunque, suscettibili di reazione sanzionatoria secondo il senso comune) principi etici generali”, essendo, invece, indispensabile al fine di far valere gli obblighi relativi alle prassi operative aziendali o locali, che potrebbero non essere conosciute dal lavoratore (Cass. n. 4826/2017).

Alla luce di quanto sopra, il Tribunale ha ritenuto proporzionata e legittima la sanzione espulsiva irrogata, rigettando integralmente il ricorso. La pronuncia in esame ribadisce, invero, la natura consensuale e regolata della possibilità di implementare il lavoro agile, escludendo la possibilità per il lavoratore di autodeterminare unilateralmente le modalità di esecuzione della prestazione.

Lavoro domestico: l’indennità per il lavoro esclusivamente notturno è riconoscibile a chi svolga anche lavoro diurno solo in caso di esplicita previsione nel contratto

La Corte di Cassazione ha escluso l’applicabilità dell’indennità prevista dal CCNL per il lavoro esclusivamente notturno ai lavoratori che prestino la propria attività anche durante il giorno, salvo il caso in cui detta indennità sia specificamente prevista nel contratto individuale.

Nel contesto di un rapporto di lavoro domestico avente ad oggetto l’assistenza domiciliare alla moglie del datore di lavoro, è insorta una controversia – a seguito della morte di quest’ultimo – tra l’ex lavoratrice e gli eredi.

La lavoratrice, inquadrata nel livello C super del CCNL Lavoro Domestico – Fidaldo e Domina, aveva prestato attività continuativa, diurna e anche notturna, presso il domicilio dell’assistita dal marzo 2011., e si è rivolta al giudice del lavoro contro gli eredi dell’ex datore di lavoro, rivendicando degli importi a titolo di differenze retributive, indennità sostitutiva del preavviso, riposi settimanali non goduti, nonché una somma a titolo di lavoro notturno.

I giudici di merito avevano parzialmente accolto le sue domande, riconoscendo un orario di lavoro superiore a quello contrattuale e, di conseguenza, il diritto a una retribuzione parametrata alle ore effettivamente lavorate, l’indennità di mancato preavviso e il TFR rideterminato. Tuttavia, la Corte di Appello di Trieste ha escluso il riconoscimento dell’indennità per lavoro notturno, ritenendo insufficiente la prova fornita dalla lavoratrice.

Nell’ambito del ricorso per Cassazione proposto dagli eredi dell’ex datore di lavoro, la lavoratrice ha proposto ricorso incidentale, lamentando l’omessa valutazione della propria domanda relativa alla retribuzione per la presenza notturna.

Con la decisione n. 19408, del 14 luglio 2025, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso incidentale, chiarendo che l’art. 11 del CCNL (erroneamente indicato nell’ordinanza come art. 12) si applichi “esclusivamente ai lavoratori assunti per garantire presenza notturna”, circostanza non ricorrente nel caso di specie, considerando che la lavoratrice prestava la propria attività anche nelle or diurne.

La Suprema Corte ha puntualizzato che l’applicazione di tale clausola del contratto collettivo sia, invero, possibile, ma solo se espressamente previsto nel contratto di lavoro individuale. In mancanza di tale previsione, non è possibile riconoscere una retribuzione aggiuntiva per la presenza notturna, anche se la prestazione lavorativa si estende a tale fascia oraria.

L’ordinanza si mostra coerente con il tenore letterale del contratto collettivo applicabile, il quale riconosce una retribuzione specifica esclusivamente ai lavoratori impiegati per la presenza notturna. Di conseguenza, tale previsione non può estendersi ai rapporti di lavoro che comprendano anche attività diurne, salvo che il contratto individuale preveda espressamente tale modalità retributiva.

Incostituzionale il limite di sei mensilità all’indennità risarcitoria spettante al lavoratore illegittimamente licenziato in una piccola impresa

La Corte Costituzionale si è pronunciata nuovamente sulla legittimità dell’art. 9, comma 1, del D. Lgs. n. 23/2015, relativo alla tutela apprestata dall’ordinamento ai lavoratori licenziati illegittimamente da imprese con meno di sedici dipendenti, ritenendo la norma costituzionalmente illegittima nella parte in cui limita a sei mensilità l’importo risarcitorio dovuto al lavoratore.

Con la sentenza n. 118 del 2025, la Corte Costituzionale si è espressa in merito al caso di un’ex lavoratrice che si era rivolta al Tribunale di Livorno, in funzione di giudice del lavoro, chiedendo che venisse accertata l’illegittimità del licenziamento per giusta causa comminatole dalla ex datrice di lavoro per insussistenza del fatto materiale contestatole, con conseguente condanna alla reintegrazione, al risarcimento del danno e al versamento dei contributi, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del D. Lgs. n. 23/2015 e, in subordine, l’accertamento della violazione del procedimento disciplinare ex art. 7 dello Statuto dei Lavoratori e la condanna della società al pagamento di un’indennità compresa tra le due e le dodici mensilità, ai sensi dell’art. 4 del D. Lgs. n. 23/2015.

La società resistente ha richiesto, invece, il rigetto delle domande della ricorrente, sul presupposto che, nel caso di specie, le norme richiamate dalla ricorrente fossero inapplicabili per carenza del requisito dimensionale indicato dall’art. 9 del D. Lgs. n. 23/2015, impiegando la resistente meno di sedici dipendenti al momento del licenziamento (e nei sei mesi precedenti).

Il Tribunale di Livorno, rilevato il mancato rispetto, da parte della società, del procedimento disciplinare di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, il mancato assolvimento dell’onere di provare il fondamento dell’atto espulsivo, nonché l’insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento per giusta causa comminato all’ex lavoratrice, e considerate, altresì, le dimensioni dell’azienda del datore di lavoro, ha ritenuto applicabile la tutela indennitaria di cui all’art. 3, comma 1 del D. Lgs. n. 23/2015, ridotta nella misura prevista dall’art. 9 del medesimo decreto.

Come è noto, l’art. 9 sancisce che nei casi di licenziamento illegittimo comminato da un’impresa con meno di sedici dipendenti, non si applicano le tutele apprestate dall’art. 3, comma 2 (i.e., reintegrazione, risarcimento del danno e versamento dei contributi relativi al periodo intercorso tra l’illegittimo licenziamento e l’effettivo rientro in azienda), ma soltanto le tutele indennitarie previste ai sensi degli artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, con valori dimezzati e, comunque, entro il tetto massimo di sei mensilità.

È, invero, in relazione all’art. 9, nella parte in cui prevede il dimezzamento delle tutele indennitarie, nonché il tetto massimo di sei mensilità, che il tribunale di Livorno ha sollevato questione di legittimità costituzionale, rimettendola al vaglio della Corte Costituzionale, sostenendo che tale disposizione di legge violi i principi, sanciti nella carta costituzionale, di eguaglianza, libertà, tutela della dignità umana, in quanto i dipendenti di «imprese “sottosoglia” […], oltre a vedersi sempre preclusa la tutela reale, sarebbero destinatari di una tutela indennitaria costretta in una forbice ridottissima».

Già con la sentenza n. 183 del 2022, la Consulta aveva ammesso l’incompatibilità di tale disposizione con i principi appena richiamati. Tuttavia, in detta occasione, la Corte, anche alla luce della modalità di proposizione della questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale rimettente, aveva ritenuto di non poter stabilire dei criteri di computo dell’indennità risarcitoria alternativi a quelli prescritti dalla norma, al fine di evitare uno sconfinamento nelle funzioni di competenza del legislatore.

La lesione dei parametri costituzionali era stata allora individuata nell’«esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità» (i.e., tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità, in caso di applicazione dell’art. 3, comma 1 del D. Lgs. n. 23/2015), tale da non consentire di ottemperare all’«esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro (i.e., i criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento) e di un’efficace deterrenza».

Nel 2022 la Corte Costituzionale ha, altresì, precisato che, in caso di ulteriore inerzia da parte del legislatore, avrebbe direttamente posto rimedio a tale vizio laddove nuovamente investita sulla questione.

Pertanto, in considerazione di quanto precede, a seguito del sollecito del Tribunale di Livorno, questa volta la Consulta si è espressa ritenendo, da un lato, non illegittimo l’art. 9 nella parte in cui dispone il dimezzamento dell’ammontare dell’indennità risarcitoria dovuta nelle diverse fattispecie trattate, e, al contempo, ribadendo il «già accertato vulnus ai principi costituzionali» con riferimento all’individuazione di un tetto massimo dell’indennità in sei mensilità.

Invero, la Corte ha precisato che un’indennità delimitata in un divario così esiguo finisce per essere «una liquidazione legale forfettizzata e standardizzata […] inidonea a rispecchiare la specificità del caso concreto e quindi a costruire un ristoro del pregiudizio sofferto del lavoratore, adeguato a garantirne la dignità, nel rispetto del principio di eguaglianza» 

In altre parole, pur ritenendo legittimo un ristoro «delimitato», essendo ormai pacifico che la tutela reintegratoria non debba essere l’unico rimedio alla condotta illecita datoriale, esso non può essere, in nome dell’esigenza di prevedibilità e di contenimento dei costi per le piccole imprese, talmente esiguo da perdere alcuna efficacia dissuasiva. 

A seguito di tale pronuncia, il giudice del lavoro di volta in volta competente nelle controversie legate all’illegittimità del licenziamento comminato a un lavoratore dipendente da parte di una piccola impresa (ai sensi della normativa di riferimento), sarà, pertanto, investito di una maggiore discrezionalità nel determinare l’indennità più appropriata al caso oggetto del suo esame, sia pure nell’ambito delle tutele già dimezzate ex art. 9 del D. Lgs n. 23/2015 – e, dunque, dovendone stabilire l’importo entro il limite minimo di tre e quello massimo di diciotto mesi.

Infine, i giudici della Consulta chiosano la propria decisione ribadendo l’auspicio che il legislatore intervenga sul profilo oggetto della sentenza in argomento nel rispetto del principio ivi enucleato, secondo il quale il criterio del numero dei dipendenti non può costituire l’esclusivo indice rivelatore della forza economica del datore di lavoro e, quindi, della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi.

Al riguardo, peraltro, la Corte Costituzionale si spinge a suggerire esplicitamente altri fattori che il legislatore (e, inevitabilmente, i singoli giudici nell’applicazione costituzionalmente orientata della norma oggetto della pronuncia) potrà utilizzare per meglio definire i fattori che distinguano le “imprese minori” dalle altre, quali il fatturato o il totale di bilancio della società datrice al momento del licenziamento.

I limiti del social scoring alla luce del Regolamento (UE) n. 1689/2024

La normativa europea vieta l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale per valutare le persone sulla base di comportamenti sociali o caratteristiche personali, qualora ciò comporti un trattamento pregiudizievole o discriminatorio.

Il Regolamento UE n. 1689/2024 del 13 giugno 2024 (c.d. AI Act), ha constatato la potenziale capacità dei sistemi di intelligenza artificiale di attribuire alle persone un punteggio sociale (c.d. social scoring), ponendo delle limitazioni volte ad evitare che tale pratica produca effetti discriminatori.

Nello specifico, come precisato nel considerando (31) dell’AI Act, la pratica del social scoring consiste nell’impiego di tecnologie di intelligenza artificiale per la valutazione e profilazione di persone, sulla base di un punteggio ottenuto dalla combinazione di dati riguardanti:

  1. il comportamento sociale (e.g., azioni, comportamenti, abitudini, forme di interazione sociale, come la partecipazione a eventi culturali, il comportamento in ambito lavorativo, il ricorso a determinati servizi pubblici);
  2. i dati relativi a caratteristiche personali o della personalità degli individui (e.g., situazione finanziaria, salute, performance lavorative, interessi, sesso, orientamento sessuale).

Il legislatore comunitario ha rilevato che la predetta pratica rischia di costituire un trattamento pregiudizievole o sfavorevole per i soggetti titolari di detti dati.

Pertanto, l’art. 5, comma 1, lett. c) dell’AI Act vieta l’impiego di pratiche di social scoring quando esse conducono a:

  1. un trattamento pregiudizievole in contesti non collegati a quelli nell’ambito dei quali i dati sono stati originariamente generati o raccolti;
  2. un trattamento pregiudizievole ingiustificato o sproporzionato rispetto al comportamento sociale rilevato o alla sua gravità.

Inoltre, la Commissione europea ha pubblicato delle Linee Guida n. 884 del 2025 contenenti indicazioni più specifiche sulle pratiche di social scoring vietate.

Il legislatore consente, invece, l’impiego di tale tecnologia al fine di effettuare valutazioni di persone per uno scopo specifico e conforme al diritto dell’Unione (come specificato al considerando 31 dell’AI Act).

Peraltro, al paragrafo 175 delle Linee Guida viene precisato che non tutte le pratiche di social scoring sono vietate, ma solamente quelle che presentano cumulativamente gli elementi elencati all’art. 5, comma 1, lett. c) dell’AI Act, che rendono la pratica idonea a produrre degli effetti lesivi o pregiudizievoli.

Nell’ambito della gestione del personale, anche alla luce delle sopra citate Linee Guida, sembra potersi ritenere ammesso l’impiego di tale pratica al fine di eseguire specifiche valutazioni dei lavoratori.

L’impiego di sistemi di social scoring deve in ogni caso avvenire nel rispetto dei principi fissati all’articolo 5 del Regolamento UE n. 679/2016 per il trattamento dei dati personali, delle regole sul processo decisionale automatizzato e sulla profilazione (ai sensi del considerando 71 e 72 del GDPR e delle linee guida dell’omonimo comitato europeo).

Qualora la valutazione o la classificazione si basi su una delle caratteristiche protette dalla disciplina antidiscriminatoria (ad esempio l’età, la religione, l’origine razziale o etnica, il sesso, ecc.) o comporti direttamente o indirettamente una discriminazione sulla base delle stesse, tale pratica sarà soggetta anche alla normativa dell’Unione e nazionale in materia antidiscriminatoria.

Laddove si intendano utilizzare sistemi di intelligenza artificiale per assegnare un punteggio sociale utile a efficientare la valutazione di un dipendente, soprattutto nei casi in cui da ciò dipenda l’attribuzione di un vantaggio o svantaggio in ambito professionale, è opportuno prestare attenzione alla tipologia di informazioni che concorrono alla formazione del punteggio stesso, rispettando i divieti sopra richiamati, così da eliminare il rischio di incorrere in pesanti sanzioni previste dall’AI Act.

In ogni caso, l’impiego legittimo di un sistema di social scoring in ambito aziendale, per la valutazione dei dipendenti, costituisce uso di un sistema di IA ad alto rischio ex art. 6 del AI Act. Pertanto, sarà necessario effettuare una valutazione dei rischi connessi a tale pratica, nonché implementare un sistema di gestione dei rischi, in conformità con le disposizioni normative europee e nazionali applicabili.

In vigore la legge n. 76/2025 sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili delle imprese

Lo scorso 10 giugno è entrata in vigore la Legge 15 maggio 2025, n. 76, relativa alla partecipazione dei lavoratori alla gestione e all’organizzazione delle società, nonché agli utili e alle attività di consultazione che precedono le scelte datoriali, che definisce un sistema normativo volto a promuovere la collaborazione, la tutela dell’occupazione e la valorizzazione economico-sociale delle imprese.

La Legge n. 76/2025, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 26 maggio scorso, dal titolo “Disposizioni per la partecipazione alla gestione, al capitale e agli utili delle imprese”, ha introdotto – per la prima volta nel nostro ordinamento – una disciplina volta a incoraggiare i dipendenti ad assumere un ruolo attivo nelle scelte strategiche e organizzative che interessano le imprese datrici presso cui prestano la propria attività lavorativa.

Per espressa previsione del testo normativo stesso, la Legge n. 76/2025 costituisce il primo tentativo di dare piena attuazione all’art. 46 della Costituzione, il quale prevede che i lavoratori debbano collaborare, nei modi previsti dalla legge, alla gestione delle aziende, e ciò al fine di consentire la massima espressione sociale – oltre che economica – del lavoro.

In particolare, per le società che adottino il sistema di amministrazione e controllo c.d. “dualistico” (dove, cioè, queste due funzioni sono esercitate, rispettivamente, da un consiglio di gestione e un consiglio di sorveglianza ai sensi degli artt. 2409-octies e ss. c.c.), è ora consentito che uno o più rappresentanti dei lavoratori dipendenti siano nominati quali membri del consiglio di sorveglianza, secondo procedure e modalità eventualmente disciplinate dal contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro.

Le società che, invece, operino con un sistema di governance c.d. monistico (ex artt. 2409-sexiesdecies e ss. c.c.), potranno consentire la nomina in seno al consiglio di amministrazione e al comitato per il controllo sulla gestione di uno o più amministratori incaricati di rappresentare gli interessi dei lavoratori dipendenti, i quali saranno appositamente individuati da questi ultimi, qualora tale possibilità sia disciplinata dal contratto collettivo nazionale applicato.

Successivamente, al capo III e IV della Legge in argomento, viene ora prevista, rispettivamente, la partecipazione economica e finanziaria dei dipendenti all’impresa mediante strumenti di partecipazione dei lavoratori al capitale della società (e.g., assegnazione di azioni ai lavoratori, anche in sostituzione di premi di risultato), nonché la partecipazione dei dipendenti all’organizzazione dell’impresa. Con riferimento a tale ultimo capo, la normativa offre la possibilità ai datori di lavoro di promuovere l’istituzione di commissioni paritetiche (art. 7), composte, quindi, in modo omogeneo da rappresentanti dei lavoratori e dell’impresa datrice, con il compito di presentare delle proposte aventi a oggetto il miglioramento e l’innovazione dei prodotti, dei processi produttivi, dei servizi e dell’organizzazione del lavoro.

Con la nuova normativa, inoltre, i rappresentanti dei lavoratori potranno avere anche una funzione di consultazione preventiva “in merito alle scelte aziendali” (art. 9), attraverso la composizione di ulteriori commissioni paritetiche che eseguiranno detti compiti secondo modalità, tempi e sedi interamente definiti all’interno dei contratti collettivi di riferimento.

Per quanto riguarda, invece, la procedura di consultazione vera e propria, la legge in commento ne delinea un preciso quadro regolatorio, che include l’obbligo del datore di lavoro di convocare la commissione paritetica con funzione consultiva mediante comunicazione scritta, anche via PEC. Entro un tempo totale di quindici giorni da tale comunicazione, la procedura si intenderà conclusa e, da tale evento, è previsto che il datore abbia trenta ulteriori giorni per convocare la commissione e illustrare i risultati della consultazione, nonché i motivi dell’eventuale mancato recepimento dei suggerimenti proposti, a seguito della quale le imprese potranno dare avvio alla definizione congiunta di piani di miglioramento e di innovazione.

È previsto, inoltre, un obbligo di formazione specialistica di durata non inferiore a dieci ore annue per i lavoratori che parteciperanno alla gestione, all’organizzazione o alle attività di consultazione menzionate, al fine di consentire loro di acquisire le conoscenze necessarie per espletare con professionalità tali funzioni.

La legge in esame istituisce, infine, presso il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), la Commissione Nazionale Permanente per la Partecipazione dei Lavoratori, che, tra le varie funzioni assegnatele, avrà il compito di dirimere le controversie in tema di partecipazione dei lavoratori, raccogliere buone prassi, e proporre al CNEL eventuali misure correttive e migliorative sulla partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese.

In conclusione, la Legge n. 76/2025, pur costituendo un tentativo di rilievo di avvio del coinvolgimento attivo dei lavoratori nell’attività di impresa, non rappresenta certamente la svolta sistemica lungamente attesa, come prefigurata, in principio, in sede costituente. Non può non rilevarsi, invero, come non sia stato introdotto alcun effettivo obbligo per le imprese, né nuove procedure di coinvolgimento dei lavoratori ivi impiegati che non fossero, seppur nell’alveo di oneri informativi e consultivi più ampi, già previste dalla contrattazione collettiva nazionale o dalla legge. Ciò lascia, indubbiamente, alle imprese piena discrezionalità rispetto all’eventuale implementazione dei percorsi di coinvolgimento dei lavoratori, rimanendo molto distante da esempi già sperimentati e consolidati in altri Paesi europei (come il sistema di co-determinazione di matrice tedesca) in materia di partecipazione dei lavoratori alla governance e ai risultati aziendali.