Disposizioni generali e pratiche vietate: disposizioni dell’AI Act già in vigore e il rischio “inaccettabile”

A decorrere dal 2 febbraio 2025, trova applicazione il primo nucleo cogente di disposizioni del Regolamento UE 2024/1689, del 13 giugno 2024, in materia di intelligenza artificiale (c.d. ”Artificial Intelligence Act”). Si tratta, in particolare, dei Capi I e II, rispettivamente concernenti le disposizioni generali e le pratiche vietate perché collegate a rischi definiti inaccettabili per la sicurezza e i diritti fondamentali dei cittadini europei.

Come evidenziato nel considerando (4) del Regolamento, l’IA può migliorare la capacità di previsione, ottimizzare l’impiego delle risorse e personalizzare soluzioni digitali, promuovendo efficienza economica, sostenibilità ambientale e progresso sociale.

Tuttavia, come affermato nei considerando successivi, rispettivamente, dal (5) e dal (6), lo sviluppo e l’utilizzo dell’IA possono comportare anche gravi rischi, intesi come possibili lesioni dei diritti fondamentali delle persone, generare discriminazioni sistemiche e produrre danni materiali e immateriali – fisici, psicologici, economici o sociali. Ciò impone l’adozione di un quadro regolatorio idoneo a indirizzare gli operatori verso un impiego antropocentrico delle tecnologie di intelligenza artificiale. Invero, tali strumenti debbono essere sviluppati e utilizzati per accrescere il benessere umano, in coerenza con i principi sanciti dall’articolo 2 TUE e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Come anticipato, lo scorso febbraio sono entrati in vigore il Capo I e II del Regolamento. Per quanto riguarda il primo, esso contiene le disposizioni generali del documento normativo, che si occupano di definirne l’oggetto e l’ambito di applicazione. Sono incluse, in tali previsioni, anche le definizioni del linguaggio con il quale, d’ora in poi, sarà necessario entrare in contatto. Espressioni quali “deployer” o “deep fake” o “sistema di riconoscimento delle emozioni” dovranno, pian piano, farsi strada nella nostra quotidianità. Si tratta, in ogni caso, di concetti che saranno implementati a mano a mano che il Regolamento entrerà in vigore nella sua interezza.

Oltre a quanto appena indicato, è ora vigente anche il Capo II del Regolamento, che riguarda le “Pratiche di IA vietate” e che impone un divieto assoluto di implementazione, all’interno dell’Unione Europea, di sistemi di IA considerati “inaccettabili” – in grado, cioè, di produrre gravi effetti negativi su diritti fondamentali, libertà individuali, sicurezza e tutela della privacy.

A titolo esemplificativo, e per quanto di interesse, sono oggi vietati i sistemi di intelligenza artificiale che facciano ricorso a:

Con riferimento a tale ultima previsione, strettamente connessa al luogo di lavoro e al divieto di utilizzare sistemi che consentano di monitorare l’elemento emotivo dei dipendenti, sarà interessante valutare, nel futuro, come tale previsione si inserisca nell’attuale contesto normativo italiano, stante la specificazione contenuta nel Regolamento che l’utilizzo di tali strumenti sia effettivamente consentito laddove l'uso del sistema di IA sia destinato a essere messo in funzione o immesso sul mercato per motivi medici o di sicurezza.

Infine, appare opportuno adottare sin d’ora, in ragione dei principi generali già applicabili (e.g., artt. 4, 13 e 52) e della normativa nazionale già vigente in materia, procedure di verifica periodica dei meccanismi decisionali supportati da strumenti di IA, al fine di garantire che gli stessi rispondano ai principi di equità e non discriminazione, così come processi di informazione preventiva nei confronti dei lavoratori in merito all’utilizzo dell’IA nei processi decisionali.

Trattamento dei dati personali dei lavoratori: la CGUE sugli accordi aziendali che deroghino in peius le tutele del GDPR

La discrezionalità accordata alla legge nazionale e ai contratti collettivi dall’art. 88, comma 1° del Regolamento 679/2016 nel determinare “norme più specifiche” che assicurino la protezione dei diritti e delle libertà con riguardo al trattamento dei dati personali dei lavoratori, non vieta al giudice nazionale adito di effettuare un controllo giurisdizionale completo nel rispetto dei principi generali posti dal GDPR.

Con la sentenza del 19 dicembre 2024, nella causa C-65/23, la Corte di Giustizia Europea (“CGUE”) si è espressa sulle disposizioni contenute in un accordo aziendale sottoscritto tra una società tedesca e il comitato aziendale dei propri dipendenti ai sensi dell’art. 88, comma 1 del Regolamento UE n. 679/2016 (il “Regolamento” o “GDPR”) in quanto potenzialmente contrarie ai principi generali in tema di tutela dei dati personali contenuti nello stesso.

Più precisamente, l’art. 88 GDPR stabilisce che gli Stati membri possono prevedere, con legge o tramite contratti collettivi, norme più specifiche per assicurare la protezione dei diritti e delle libertà con riguardo al trattamento dei dati personali dei dipendenti nell’ambito dei rapporti di lavoro.

La vicenda prende le mosse dal giudizio instaurato da un lavoratore della citata una società tedesca, che ha chiesto l’accesso ad alcune informazioni, la cancellazione di dati che lo riguardavano, nonché un risarcimento per il danno morale asseritamente subìto a seguito di un trattamento illecito dei suoi dati personali, che erano stati trasferiti dal software della società datrice ad un server americano di proprietà della società controllante, in base a quanto stabilito nell’accordo aziendale. In particolare, il dipendente ha sostenuto che il trasferimento dei suoi dati non fosse necessario e che, inoltre, alcuni dei dati trasferiti non fossero neppure oggetto dell'accordo stesso.

In proprio favore, il lavoratore ha invocato gli artt. 5, 6, comma 1° e 9, commi 1° e 2° del GDPR, i quali definiscono i principi applicabili al trattamento dei dati personali, delimitandone i confini di liceità e prevedendo limiti specifici per il trattamento di categorie particolari di dati personali (e.g., che rivelino l’originale razziale o etnica, le opinioni politiche o le convinzioni religiose di ciascuno). 

Più nello specifico, il dipendente ha reclamato che il trattamento dei propri dati, giustificato ai fini dello svolgimento rapporto di lavoro, avesse violato le disposizioni menzionate e che, per tale ragione, l’accordo aziendale – che prevedeva tale modalità illegittima – dovesse essere sostanzialmente disapplicato per garantire la piena tutela accordata dal GDPR. Inoltre, pur ipotizzando la validità dell’accordo aziendale, lo stesso sarebbe stato disatteso, se si considera che, in concreto, erano stati trasferiti dalla datrice alla controllante diversi dati personali non elencati nell’accordo aziendale, ossia di cui non era stato autorizzato il trasferimento (quali recapiti privati, numeri di previdenza sociale e di identificazione fiscale).

Dopo aver valutato i quesiti del rinvio pregiudiziale eseguito dalla Suprema Corte tedesca, la CGUE, investita del caso, si è chiesta se gli accordi collettivi disciplinanti le modalità di trattamento dei dati personali, ai sensi dell’art. 88, comma 1° del GDPR, dovessero rispettare i soli limiti posti dal comma 2° dello stesso articolo (i.e., salvaguardia della dignità umana, degli interessi legittimi e dei diritti fondamentali degli interessati) oppure anche i principi generali sanciti agli artt. 5, 6, comma 1°, e 9, comma 1° e 2°, del medesimo Regolamento, tra i quali il criterio di “necessità del trattamento”.

All’esito delle proprie valutazioni, la Corte europea ha optato per la seconda soluzione, affermando che le “norme più specifiche” eventualmente introdotte da una norma di legge nazionale o da un contratto collettivo ai sensi dell’art. 88, comma 1° del Regolamento, devono, in ogni caso, rispettare anche i principi generali posti dagli artt. 5, 6 e 9 dello stesso. Ha affermato, inoltre, la il margine di discrezionalità, nella definizione di “necessità del trattamento dei dati”, che andrebbe riconosciuto alle parti che sottoscrivono un accordo sindacale ai sensi dall’art. 88, comma 1° del GDPR, considerando che tale criterio potrebbe variare di settore in settore, e che, di norma, sindacati e imprese posseggono conoscenze e sensibilità idonee ad apprezzare le peculiarità di settore, non impedisce un controllo giurisdizionale “sul rispetto di tutte le condizioni e i limiti prescritti dalle disposizioni di tale regolamento per il trattamento di dati personali”, inclusa la verifica del carattere necessario del trattamento dei dati, ai sensi degli artt. 6, 6 e 9 del GDPR.

La soluzione offerta dalla CG UE sembra escludere, dunque, in modo netto, la possibilità, per sindacati e imprese nazionali, di derogare pattiziamente ai limiti e alle tutele accordate in tema di privacy dal Regolamento UE n. 679/2016, a nulla rilevando le peculiarità proprie di ciascun settore.

Discriminazione indiretta nei casi di determinazione del medesimo periodo di comporto per i lavoratori disabili

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 170 del 7 gennaio 2025, ha riconosciuto la natura indirettamente discriminatoria dell’applicazione di un periodo di comporto uniforme per lavoratori disabili e non disabili.

Con la sentenza n. 170 del 7 gennaio 2025, la Corte di Cassazione ha ribadito che un periodo di comporto della medesima durata per tutti i lavoratori, che non tenga, quindi, conto della peculiare condizione dei lavoratori portatori di handicap, costituisce discriminazione indiretta nei confronti di questi ultimi.

Nel caso di specie, il lavoratore disabile licenziato per superamento del periodo di comporto ha impugnato la sentenza della Corte di Appello di Torino che, riformando la sentenza del giudice di primo grado, da un lato, rilevava la corretta qualificazione del lavoratore come “persona con disabilità” ai sensi degli artt. 1 e ss. del D. Lgs. 216 del 2003 e, dall’altro, non condivideva le conclusioni raggiunte nella pronuncia di prime cure, con cui il primo giudice riconosceva la natura indirettamente discriminatoria della circostanza di riconoscere il medesimo periodo di comporto tanto ai lavoratori non disabili, quanto a quelli che, invece, lo sono.

La Suprema Corte, richiamando diversi precedenti conformi, ha affermato che l’applicazione del medesimo periodo di comporto ai lavoratori disabili e ai lavoratori non disabili darebbe luogo, secondo il diritto dell’Unione, a un’ipotesi di discriminazione indiretta. Infatti, stabilire il medesimo periodo di comporto per tutti i lavoratori è un criterio apparentemente neutro che diviene, di fatto, indirettamente discriminatorio nei casi in cui il datore di lavoro non consideri adeguatamente “i rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili”, categoria che, proprio per tale ragione, si trova in una posizione di “particolare svantaggio”.

La Suprema Corte ha precisato che il datore di lavoro che sia a conoscenza della disabilità del lavoratore (o per cui sia possibile conoscere tale stato mediante l’impiego dell’ordinaria diligenza) ha l’onere di verificare, prima dell’irrogazione del licenziamento per superamento del periodo di comporto, che le assenze non siano “connesse allo stato di disabilità”. In tal senso, la Corte ha ribadito l’esigenza che i contratti collettivi disciplinino specificamente la questione del comporto per i lavoratori disabili, “avendo riguardo alla condizione soggettiva del lavoratore”.

La Cassazione ha, così, accolto il ricorso del lavoratore e ha cassato la sentenza della Corte di Appello di Torino. Invero, nel caso di specie, in base alle valutazioni di merito svolte dalla stessa Corte territoriale, il datore di lavoro era a conoscenza della condizione di disabilità del lavoratore e, ciononostante, aveva proceduto al suo licenziamento per superamento del periodo di comporto senza “acquisire informazioni circa la correlazione tra assenze per malattia del dipendente e stato personale di disabilità”, che sarebbero state utili a individuare possibili accorgimenti utili a evitare il recesso.

Distacco internazionale e permesso di soggiorno: le prerogative degli Stati membri ospitanti, secondo la Corte di Giustizia UE

Nella sentenza del 20 giugno 2024, relativa alla causa C-540/22, la Corte di Giustizia UE ha stabilito che l’art. 56 TFUE, relativo alla libera circolazione dei servizi, non preclude a uno Stato membro di imporre a un’impresa, stabilita in altro Stato membro e intenzionata a distaccare nel territorio del primo dei lavoratori di Paesi terzi per un periodo superiore a tre mesi, l’obbligo di notificare preventivamente la prestazione di servizi alle autorità dello Stato membro ospitante e, successivamente, di ottenere dalle stesse un permesso di soggiorno per ciascun lavoratore straniero distaccato.

Con la sentenza del 20 giugno 2024, nella causa C-540/22, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) si è espressa rispetto alla controversia che ha coinvolto alcuni cittadini ucraini titolari di un permesso di soggiorno temporaneo rilasciato dalle autorità slovacche, dipendenti di una società di tale nazionalità, successivamente distaccati presso una diversa società olandese.

A tal fine, preventivamente rispetto all’inizio del distacco, la datrice di lavoro slovacca ha notificato alle autorità olandesi la natura e la durata iniziale dell’attività, inferiore di poco a 90 giorni. Successivamente all’inizio delle operazioni, però, la scadenza del periodo in argomento è stata prorogata fino a oltre un anno rispetto alla stessa.  

In virtù di detta proroga, la durata del distacco finiva per superare il limite di 90 giorni oltre i quali, ai sensi della normativa europea (Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen), gli stranieri che intendano circolare liberamente nello Stato membro devono richiedere e ottenere un valido titolo di soggiorno ai fini dell’ulteriore permanenza.

Alla luce delle citate previsioni, la società slovacca ha richiesto alle autorità olandesi, in nome dei lavoratori stranieri, il rilascio di permessi di soggiorno regolari a tempo determinato. Le autorità olandesi hanno rilasciato i permessi richiesti, limitando, tuttavia, la durata della loro validità a quella dei permessi di soggiorno slovacchi dei lavoratori. I permessi di lavoro accordati dalle autorità olandesi risultavano, così, di durata inferiore rispetto a quella dell’attività lavorativa da svolgere in regime di distacco nei Paesi Bassi.

Di fronte a tale decisione, i lavoratori hanno presentato reclami, contestando sia l’obbligo di ottenere un permesso di soggiorno per il distacco transfrontaliero, sia la durata limitata della validità dei permessi concessi, i quali sono stati respinti. Conseguentemente, i cittadini ucraini hanno adito il Giudice europeo per chiedere l’annullamento di tale decisione.  

Conseguentemente, la CGUE è stata investita del caso e, pertanto, chiamata a valutare sulla legittimità del diritto dello Stato membro nel quale i lavoratori stranieri vengano distaccati di esigere che ciascuno di essi ivi richieda e ottenga il rilascio del permesso di soggiorno in caso di permanenza superiore a 90 giorni dei lavoratori sul proprio territorio, e se ciò non osti alla libera prestazione di servizi sancita dagli artt. 56 e 57 TFUE. In tal caso, i giudici europei hanno dovuto valutare se sia coerente con l’assetto normativo comunitario che lo Stato ospitante preveda una legge che limiti, nei casi di rilascio di permesso di soggiorno ad un lavoratore straniero distaccato nel proprio territorio, la durata del suddetto permesso alla durata del permesso di soggiorno che il lavoratore straniero ha ottenuto nel Paese in cui ha sede la società distaccante.

A seguito di una disamina della normativa europea e nazionale di riferimento, la Corte di Giustizia ha richiamato un proprio precedente, nel quale si affermava che una normativa nazionale, pur avendo un effetto restrittivo sulla libera prestazione di servizi, può essere giustificata qualora persegua un motivo imperativo di interesse generale.

Tra le diverse giustificazioni proposte dai Paesi Bassi al fine di legittimare la previsione normativa che abbia degli effetti restrittivi sulla libera prestazione di servizi, la CJUE ha considerato motivi imperativi di interesse generale: la necessità di (i) tutelare l’accesso al mercato del lavoro nazionale (purché tale preoccupazione sia espressa nei confronti non dei lavoratori degli Stati membri), e (ii) verificare che il lavoratore distaccato non rappresenti una minaccia per l’ordine pubblico domestico.   

Di conseguenza, la Corte ha sancito la possibilità per lo Stato membro ospitante di limitare la durata di validità dei permessi di soggiorno dei lavoratori stranieri distaccati nel proprio territorio al fine di eseguire la prestazione transfrontaliera di servizi alla durata dei permessi che tali lavoratori hanno ottenuto nello Stato in cui è stabilita l’impresa. Infatti, se una società fornitrice di servizi transfrontalieri non svolgesse tale attività nel rispetto della legge, essa otterrebbe un vantaggio illegittimo, derivante cioè dalla commissione di un illecito. Ai fini della presente disamina, il presupposto che rende legale l’attività svolta dalla società che offre servizi transfrontalieri mediante l’impiego di un lavoratore extracomunitario è la regolare assunzione dello stesso, e ciò presuppone la validità del permesso di soggiorno rilasciato dallo Stato in cui è assunto.

Alla luce della pronuncia della CGUE, dunque, i datori di lavoro che intendano distaccare lavoratori di Paesi terzi verso un altro Stato membro devono prestare particolare attenzione alla normativa locale in materia di soggiorno. È essenziale verificarne in anticipo i relativi requisiti e i limiti eventualmente imposti dalle leggi nazionali, così da evitare interruzioni operative e ulteriori oneri amministrativi. Inoltre, è consigliabile monitorare eventuali sviluppi normativi al fine di garantire la conformità delle procedure di distacco e tutelare sia l’azienda che i lavoratori coinvolti.

In caso di DVR lacunoso, dell’infortunio risponde il datore e non il delegato alla sicurezza

In caso di infortunio del lavoratore, la sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39168 dello scorso 25 ottobre, ha stabilito che la responsabilità sia ascrivibile al datore di lavoro – e non al dirigente delegato alla sicurezza - ove l’evento lesivo non sia stato previsto e valutato nel Documento di Valutazione dei Rischi.

Con la sentenza n. 39168 del 25 ottobre 2024, la Corte di Cassazione, sezione penale, ha ribadito il principio consolidato per cui la delega in materia di sicurezza, rilasciata dal datore di lavoro ad altro soggetto interno all’organizzazione aziendale, “non può essere illimitata quanto all’oggetto delle attività trasferibili”. Risponde, dunque, dell’infortunio esclusivamente il datore di lavoro in caso di Documento di Valutazione dei Rischi (“DVR”) lacunoso, anche in caso di imprese di grandi dimensioni.

Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione ha censurato la Corte territoriale per aver attribuito al ricorrente – dirigente con delega alla sicurezza – la responsabilità per l’infortunio verificatosi ai danni di un dipendente durante l’attività di carico di materiale prefabbricato. Infatti, pur avendo preso correttamente atto delle lacune presenti nel DVR aziendale, la Corte di Appello di Bolzano ha attribuito (erroneamente, secondo la Suprema Corte) tali carenze e, quindi, la responsabilità per l’infortunio, al dirigente ricorrente, ritenendolo imputabile dell’inadeguatezza delle misure di prevenzione inserite nel documento.

Secondo la Corte territoriale, in ragione della delega conferita, si trasferiscono in capo al dirigente munito di relativa delega tutti gli obblighi del datore in tema di sicurezza sul lavoro e, di conseguenza, nel caso di specie, a tale soggetto doveva essere, altresì, attribuito l’obbligo di individuare e valutare i rischi connessi al lavoro svolto in azienda e di definire le misure cautelari necessarie a prevenirli, adottandole ed assicurandosi che i lavoratori le osservino.

Invero, con tale sentenza la Corte di Cassazione ha smentito la ricostruzione delle altre Corti che si sono espresse sul caso, offrendo, inoltre, una completa disamina della disciplina.

La Suprema Corte, infatti, ha ribadito che il datore di lavoro è il “garante” dell’incolumità fisica e morale di ciascun lavoratore, e ciò in forza delle disposizioni previste all’interno del Testo Unico in materia di Sicurezza (D. Lgs. 81/2008), nonché, più ampiamente, ai sensi dell’art. 2087 c.c. Ciononostante, la Corte ha ammesso che, in imprese di grandi dimensioni, è plausibile che vi sia una gerarchia di responsabilità, anche in materia di sicurezza, che deve essere in concreto accertata, mantenendo comunque fermo il principio in forza del quale la delega non può essere illimitata quanto all'oggetto delle attività trasferibili.

Infatti, come ricordato dalla stessa Corte, il Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (D. Lgs. n. 81/2008) individua obblighi del datore di lavoro non delegabili per via della loro rilevanza. Tra questi, rientra espressamente l’attività di valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori al fine di una esaustiva redazione del DVR, contenente l’analisi valutativa dei rischi e l’indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate, che va immediatamente aggiornato al mutare dell’organizzazione aziendale. 

In tema di prevenzione degli infortuni, il datore avrà quindi l'obbligo – non delegabile – di analizzare e individuare, con il massimo grado di specificità, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda e, in esito a tale indagine, dovrà redigere e aggiornare periodicamente il DVR.

La Corte di Cassazione ha dunque concluso ritenendo che la sentenza impugnata abbia attribuito “decisivo rilievo” alla delega conferita in materia di sicurezza al dirigente ricorrente, tanto da elevarlo, erroneamente, in relazione ai suoi doveri e obblighi, ad “alter ego del datore di lavoro”.

Pertanto, la Suprema Corte ha escluso che le lacune delineate nel DVR potessero essere imputabili al soggetto delegato alla sicurezza, e che, al contrario e per le ragioni illustrate, queste restino ascrivibili esclusivamente al datore, che ne è il solo responsabile.

Nuova Direttiva europea sul lavoro organizzato mediante piattaforme digitali

Il 1° dicembre 2024 entrerà in vigore le Direttiva UE 2831 del 23 ottobre 2024, che ha come scopo il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’incremento del livello di tutela dei dati personali dei lavoratori la cui attività viene organizzata mediante l’impiego di piattaforme digitali.

La Direttiva UE 2831/2024, che dovrà essere recepita dagli Stati Membri entro il 2 dicembre 2026, mira a garantire livelli di protezione sempre maggiori per quei lavoratori che svolgano la propria prestazione di lavoro attraverso l’utilizzo di piattaforme digitali. Tale intervento del legislatore comunitario è stato ritenuto necessario al fine di porre rimedio alla condizione di un numero crescente di lavoratori costretti a operare in un contesto di scarsa tutela.

Novità più rilevante della Direttiva, infatti, è l’introduzione di una presunzione legale semplice di subordinazione dei lavoratori che operano attraverso piattaforme digitali in presenza di specifici indicatori, quali l’assoggettamento al potere direttivo e di controllo del datore di lavoro, in questi casi esercitato per il tramite della piattaforma digitale.

La presunzione non comporta l’immediata riqualificazione dei rapporti di lavoro, ma potrà essere utilizzata dai lavoratori e dagli organi ispettivi in sede di accertamento o di contenzioso avente a oggetto l’accertamento della effettiva natura  del rapporto di lavoro intercorrente tra le parti.

In Italia, la norma di recepimento della Direttiva dovrà necessariamente essere coordinata con l’articolo 2 del D.lgs. n. 81/2015 che impone già l’applicazione della disciplina dei rapporti di lavoro subordinato alle collaborazioni, svolte in maniera prevalentemente personale dal collabortore e caratterizzate dall’assoggettamento di questi al potere organizzativo del committente.

La Direttiva introduce, inoltre, limitazioni più stringenti in relazione al trattamento dei dati personali dei lavoratori e più puntuali obblighi informativi che permettano un’adeguata conoscenza da parte degli stessi dell’utilizzo dei sistemi di monitoraggio della prestazione e dei processi decisionali automatizzati.

In particolare, viene introdotto l’obbligo di effettuare una valutazione d’impatto rispetto al trattamento dei dati personali dei lavoratori e di adottare specifiche misure per favorire la trasparenza rispetto all’utilizzo dei sistemi automatizzati che incidono sulla gestione del rapporto di lavoro.

Con cadenza biennale, poi, i datori di lavoro dovranno effettuare valutazioni che riguardano l’impatto dei sistemi di monitoraggio e dei sistemi decisionali automatizzati sui lavoratori e sulle condizioni di lavoro, con specifico riferimento alla parità di trattamento degli stessi, modificando le procedure adottate qualora emerga che esse abbiano generato un elevato rischio di discriminazione o abbiano violato i diritti del lavoratore.

Infine, la Direttiva riconosce il diritto del lavoratore di ottenere spiegazioni da parte del datore di lavoro in merito a ogni decisione da questi assunta e derivante dall’utilizzo dei sistemi decisionali automatizzati. In particolare, qualsiasi decisione di limitare, sospendere o risolvere il rapporto di lavoroe qualsiasi scelta ugualmente pregiudizievole per il lavoratore che svolge la sua attività mediante l’utilizzo di piattaforme digitali richiederà l’intervento di un operatore umano e il datore dovrà identificare una persona specificamente preposta a riscontrare i lavoratori in merito alle richieste di informazioni relative ai sistemi decisionali automatizzati in uso in azienda.

Il dipendente maleducato può essere licenziato?

Legittimo il licenziamento del dipendente che si rivolga in modo sgarbato e con atteggiamento aggressivo nei confronti della clientela.

Il caso prende le mosse dall’impugnazione, da parte di un dipendente, addetto al banco macelleria di un supermercato, del licenziamento per giusta causa irrogatogli dal datore di lavoro in quanto lo stesso si era rivolto nei confronti di un cliente con toni aggressivi e volgari.

La Corte di Cassazione, confermando la pronuncia di merito che aveva rigettato la domanda del dipendente, ritenendo che la condotta posta in essere costituisse una grave violazione degli obblighi contrattuali punibili con il licenziamento ai sensi del CCNL applicato al rapporto di lavoro, ribadisce quali sono i confini della verifica, in sede di legittimità, della giusta causa di recesso.

La Corte precisa che la giusta causa è definibile come clausola generale, che richiede di essere specificata, da parte del giudice, in sede interpretativa, tramite la valorizzazione di fattori esterni.

Nel caso di specie, per esempio, l’addetto al bancone del supermercato si era rifiutato di scusarsi con il cliente e aveva proseguito la discussione con toni sempre più accesi.

La valutazione del giudice di merito concernente l’applicazione delle clausole generali non può essere sottratta a una verifica in sede di giudizio di legittimità.

L’accertamento della ricorrenza degli elementi che integrano la giusta causa di licenziamento, invece, assegnata unicamente al giudice di merito, è sindacabile in sede di legittimità solo se la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito contenga “una denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale”.

Su tali presupposti, la Corte ha rigettato il ricorso proposto dal lavoratore e ha confermato la legittimità del licenziamento.

Indennità dovute alla cessazione del rapporto di agenzia ai sensi degli AEC Commercio

La disciplina dei rapporti di agenzia del settore del commercio è particolarmente specifica e, piuttosto che fare riferimento al solo Codice Civile, si arricchisce di ulteriori termini e condizioni attraverso un set di norme già stabilite a livello collettivo. Ciò altera sensibilmente le pattuizioni che sia il preponente, sia gli agenti dovranno considerare, soprattutto al momento della risoluzione del contratto di agenzia.

Se espressamente stabilito all'interno del contratto di agenzia (o applicato in concreto), le parti del contratto di agenzia del settore del commercio possono fare riferimento ai cosiddetti Accordi Economici Collettivi (“AEC”) per stabilire i termini e le condizioni di tale rapporto.

La fonte citata prevede norme specifiche che si affiancano a quelle stabilite dal Codice Civile e costituiscono un insieme più articolato di regole volte a disciplinare in maniera più capillare il rapporto tra l’agente e la preponente.

Con specifico riferimento ai pagamenti dovuti alla cessazione del rapporto di agenzia, gli AEC prevedono delle indennità di fine rapporto che il preponente deve riconoscere ai propri agenti ogni qualvolta il rapporto cessi per determinati motivi. In particolare:

A) Indennità di fine rapporto (FIRR): è dovuta per il solo fatto della cessazione; corrisponde all'1% delle provvigioni maturate e pagate all'agente durante l'intero rapporto fino a quel momento, con un ulteriore 3% dovuto per le provvigioni che raggiungono un valore economico fino a – in caso di esclusiva stabilita tra le parti – 12.400 euro (che scende all'1% in caso di valore compreso tra 12.400 e 18.600 euro).

B) Indennità suppletivadi clientela: è dovuta quando la cessazione è decisa dal preponente per motivi non imputabili all'agente o, in caso di dimissioni dell'agente, quando le dimissioni sono dovute a:

- invalidità permanente o totale o stato patologico a causa del quale il rapporto non può più essere ragionevolmente svolto;

- raggiungimento dei requisiti per il pensionamento;

- motivi determinati dal preponente;

- decesso dell'agente (in tal caso, le somme dovute saranno corrisposte ai suoi eredi).

Tale indennità è pari al 3% delle provvigioni maturate dall'agente nei primi tre anni di rapporto di lavoro, al 3,5% per gli anni dal quarto al sesto del rapporto e al 4% per tutti gli anni successivi.

C) Indennità meritocratica, che è dovuta solo se:

Questa indennità non è dovuta quando l'agente decide di interrompere il rapporto di lavoro per motivi propri, a meno che tale decisione non sia stata causata da una responsabilità del preponente o da una condizione personale dell'agente stesso.

Occorre sin da subito segnalare che il sistema delineato dagli AEC preveda dei presupposti e delle modalità di calcolo sensibilmente differenti da quelle dettate dall’art. 1751 c.c.

Per le norme collettive, infatti, rilevano soltanto le provvigioni percepite dall’agente nel corso del rapporto e la sua durata, con una rilevanza limitata del merito dell’agente nell’apportare nuovi clienti o sviluppare sensibilmente quelli esistenti (se non con riguardo alla sola ultima indennità sopra descritta).

Il penultimo comma dell’art. 1751 c.c., tuttavia, prevede l’inderogabilità della disposizione codicistica a svantaggio dell’agente, con una valutazione che deve essere effettuata ex ante rispetto alla sottoscrizione del contratto di agenzia.

La sentenza della Corte di Giustizia del 23 marzo 2006 C-465/04 (Honyvem c. De Zotti) ha ritenuto invalide le clausole dell’AEC – a quel tempo in vigore – in merito alla determinazione dell’indennità di fine mandato, poiché incompatibili con il sistema previsto dalla Direttiva 86/653/CEE.

Tali disposizioni, infatti, non consentono di cumulare l’indennità contrattuale con quella legale, né che sia dovuta all’agente un’indennità pari o superiore a quella determinata ai sensi della Direttiva.

Sebbene quanto precede sia pacifico, le corti italiane hanno sviluppato un proprio orientamento che, pur allineandosi all’insegnamento della Corte di Giustizia in tema di prevalenza della disposizione comunitaria rispetto al dettato degli AEC, afferma che la valutazione di maggiore o minore “favorevolezza” del trattamento collettivo rispetto a quello legale non vada effettuata al momento della sottoscrizione del contratto, ma alla sua cessazione.

Alla luce dei chiarimenti sopra esposti, è opportuno che il preponente di un rapporto di agenzia al quale sono applicati gli AEC sia consapevole del fatto che, in caso di risoluzione di detto contratto, l’agente – ove maggiormente favorevole – potrebbe, comunque, contestare l’applicazione delle disposizioni collettive ai fini della determinazione delle indennità di fine mandato, optando per i criteri e le modalità di calcolo indicati dall’art. 1751 c.c.

La Direttiva UE sui licenziamenti collettivi si applica anche in caso di pensionamento del datore di lavoro.

Sono contrarie al diritto europeo le norme degli Stati Membri che non prevedono l’applicazione della legge sui licenziamenti collettivi alle cessazioni dei rapporti di lavoro che sono causate dal pensionamento del datore di lavoro.

Il caso esaminato dalla Corte ha come protagonisti otto dipendenti spagnoli che hanno impugnato il licenziamento irrogatogli al momento della chiusura dell’azienda a causa del pensionamento del datore di lavoro in quanto il licenziamento non era stato preceduto dalla fase di consultazione sindacale.

La Corte spagnola ha interpellato la Corte di Giustizia UE per stabilire se la normativa spagnola - che prevede una procedura di consultazione sindacale in caso di licenziamento collettivo salvo che la cessazione sia stata causata dal pensionamento del datore di lavoro - sia conforme o meno al diritto comunitario, quindi, se tale eccezione sia conforme alla Direttiva n. 98/59/CE sui licenziamenti collettivi.

Con la sentenza dell’11 luglio 2024, nella causa C-196/23, la Corte di Giustizia ha statuito che la Direttiva n. 98/59/CE deve trovare applicazione in tutte le ipotesi di cessazione del contratto di lavoro che non siano dipese dalla volontà del dipendente. Lo scopo della Direttiva, infatti, è quello di far precedere i licenziamenti collettivi da una consultazione dei rappresentanti dei lavoratori e dall’informazione dell’autorità pubblica competente.

Pertanto, a opinione della Corte di Giustizia, la norma spagnola, è in contrasto con la Direttiva, laddove prevede che la procedura di consultazione sindacale non trovi applicazione anche in caso di licenziamenti collettivi conseguenti al pensionamento del datore.

Precisa, poi, la Corte che il caso in esame è differente da quello in cui l’attività cessa a causa del decesso del datore di lavoro, in quanto il datore che va in pensione è, in linea di principio, in grado di condurre le consultazioni sindacali nelle procedure di licenziamento collettivo.

La Corte di Giustizia ha, quindi, dichiarato contraria al diritto comunitario la normativa spagnola oggetto di censura.

Il risarcimento in caso di riqualificazione del rapporto di lavoro autonomo.

Nel caso in cui venga accertata la natura subordinata del rapporto di lavoro non si applica il regime indennitario ex art. 32 della legge n. 183/2010 ma quello risarcitorio.

Nel caso in esame, un giornalista, il cui rapporto di lavoro era cessato dopo essere stato impiegato come lavoratore autonomo, in virtù della successione di diversi contratti a termine, per oltre 10 anni, senza soluzione di continuità, dal medesimo giornale, ha adito il Tribunale al fine di ottenere l'accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato nei confronti dello stesso.

La Corte d’Appello ha accolto parzialmente la domanda del giornalista, riconoscendo la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con il giornale e ricostituendo lo stesso a tempo indeterminato, prevedendo, tuttavia, la condanna del datore al pagamento della sola indennità risarcitoria ex art. 32 L. n. 183/2010, prevista in caso di illegittimità del termine apposto ai rapporti a tempo determinato.

La Corte di Cassazione, nel ribaltare la pronuncia di merito, ha stabilito che in caso di accertamento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a fronte di un contratto di lavoro autonomo, anche se a termine, dichiarato illegittimo è applicabile il risarcimento integrale del danno, non il semplice indennizzo.

Secondo i Giudici di legittimità, infatti, quest’ultima normativa trova applicazione soltanto in caso di declaratoria di illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro subordinato, ipotesi meno grave e non sovrapponibile a quella oggetto di esame.

Spetta, invece, al lavoratore un risarcimento in misura pari alle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora alla effettiva riammissione in servizio.