La Corte Costituzionale si è pronunciata nuovamente sulla legittimità dell’art. 9, comma 1, del D. Lgs. n. 23/2015, relativo alla tutela apprestata dall’ordinamento ai lavoratori licenziati illegittimamente da imprese con meno di sedici dipendenti, ritenendo la norma costituzionalmente illegittima nella parte in cui limita a sei mensilità l’importo risarcitorio dovuto al lavoratore.
Con la sentenza n. 118 del 2025, la Corte Costituzionale si è espressa in merito al caso di un’ex lavoratrice che si era rivolta al Tribunale di Livorno, in funzione di giudice del lavoro, chiedendo che venisse accertata l’illegittimità del licenziamento per giusta causa comminatole dalla ex datrice di lavoro per insussistenza del fatto materiale contestatole, con conseguente condanna alla reintegrazione, al risarcimento del danno e al versamento dei contributi, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del D. Lgs. n. 23/2015 e, in subordine, l’accertamento della violazione del procedimento disciplinare ex art. 7 dello Statuto dei Lavoratori e la condanna della società al pagamento di un’indennità compresa tra le due e le dodici mensilità, ai sensi dell’art. 4 del D. Lgs. n. 23/2015.
La società resistente ha richiesto, invece, il rigetto delle domande della ricorrente, sul presupposto che, nel caso di specie, le norme richiamate dalla ricorrente fossero inapplicabili per carenza del requisito dimensionale indicato dall’art. 9 del D. Lgs. n. 23/2015, impiegando la resistente meno di sedici dipendenti al momento del licenziamento (e nei sei mesi precedenti).
Il Tribunale di Livorno, rilevato il mancato rispetto, da parte della società, del procedimento disciplinare di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, il mancato assolvimento dell’onere di provare il fondamento dell’atto espulsivo, nonché l’insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento per giusta causa comminato all’ex lavoratrice, e considerate, altresì, le dimensioni dell’azienda del datore di lavoro, ha ritenuto applicabile la tutela indennitaria di cui all’art. 3, comma 1 del D. Lgs. n. 23/2015, ridotta nella misura prevista dall’art. 9 del medesimo decreto.
Come è noto, l’art. 9 sancisce che nei casi di licenziamento illegittimo comminato da un’impresa con meno di sedici dipendenti, non si applicano le tutele apprestate dall’art. 3, comma 2 (i.e., reintegrazione, risarcimento del danno e versamento dei contributi relativi al periodo intercorso tra l’illegittimo licenziamento e l’effettivo rientro in azienda), ma soltanto le tutele indennitarie previste ai sensi degli artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, con valori dimezzati e, comunque, entro il tetto massimo di sei mensilità.
È, invero, in relazione all’art. 9, nella parte in cui prevede il dimezzamento delle tutele indennitarie, nonché il tetto massimo di sei mensilità, che il tribunale di Livorno ha sollevato questione di legittimità costituzionale, rimettendola al vaglio della Corte Costituzionale, sostenendo che tale disposizione di legge violi i principi, sanciti nella carta costituzionale, di eguaglianza, libertà, tutela della dignità umana, in quanto i dipendenti di «imprese “sottosoglia” […], oltre a vedersi sempre preclusa la tutela reale, sarebbero destinatari di una tutela indennitaria costretta in una forbice ridottissima».
Già con la sentenza n. 183 del 2022, la Consulta aveva ammesso l’incompatibilità di tale disposizione con i principi appena richiamati. Tuttavia, in detta occasione, la Corte, anche alla luce della modalità di proposizione della questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale rimettente, aveva ritenuto di non poter stabilire dei criteri di computo dell’indennità risarcitoria alternativi a quelli prescritti dalla norma, al fine di evitare uno sconfinamento nelle funzioni di competenza del legislatore.
La lesione dei parametri costituzionali era stata allora individuata nell’«esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità» (i.e., tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità, in caso di applicazione dell’art. 3, comma 1 del D. Lgs. n. 23/2015), tale da non consentire di ottemperare all’«esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro (i.e., i criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento) e di un’efficace deterrenza».
Nel 2022 la Corte Costituzionale ha, altresì, precisato che, in caso di ulteriore inerzia da parte del legislatore, avrebbe direttamente posto rimedio a tale vizio laddove nuovamente investita sulla questione.
Pertanto, in considerazione di quanto precede, a seguito del sollecito del Tribunale di Livorno, questa volta la Consulta si è espressa ritenendo, da un lato, non illegittimo l’art. 9 nella parte in cui dispone il dimezzamento dell’ammontare dell’indennità risarcitoria dovuta nelle diverse fattispecie trattate, e, al contempo, ribadendo il «già accertato vulnus ai principi costituzionali» con riferimento all’individuazione di un tetto massimo dell’indennità in sei mensilità.
Invero, la Corte ha precisato che un’indennità delimitata in un divario così esiguo finisce per essere «una liquidazione legale forfettizzata e standardizzata […] inidonea a rispecchiare la specificità del caso concreto e quindi a costruire un ristoro del pregiudizio sofferto del lavoratore, adeguato a garantirne la dignità, nel rispetto del principio di eguaglianza»
In altre parole, pur ritenendo legittimo un ristoro «delimitato», essendo ormai pacifico che la tutela reintegratoria non debba essere l’unico rimedio alla condotta illecita datoriale, esso non può essere, in nome dell’esigenza di prevedibilità e di contenimento dei costi per le piccole imprese, talmente esiguo da perdere alcuna efficacia dissuasiva.
A seguito di tale pronuncia, il giudice del lavoro di volta in volta competente nelle controversie legate all’illegittimità del licenziamento comminato a un lavoratore dipendente da parte di una piccola impresa (ai sensi della normativa di riferimento), sarà, pertanto, investito di una maggiore discrezionalità nel determinare l’indennità più appropriata al caso oggetto del suo esame, sia pure nell’ambito delle tutele già dimezzate ex art. 9 del D. Lgs n. 23/2015 – e, dunque, dovendone stabilire l’importo entro il limite minimo di tre e quello massimo di diciotto mesi.
Infine, i giudici della Consulta chiosano la propria decisione ribadendo l’auspicio che il legislatore intervenga sul profilo oggetto della sentenza in argomento nel rispetto del principio ivi enucleato, secondo il quale il criterio del numero dei dipendenti non può costituire l’esclusivo indice rivelatore della forza economica del datore di lavoro e, quindi, della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi.
Al riguardo, peraltro, la Corte Costituzionale si spinge a suggerire esplicitamente altri fattori che il legislatore (e, inevitabilmente, i singoli giudici nell’applicazione costituzionalmente orientata della norma oggetto della pronuncia) potrà utilizzare per meglio definire i fattori che distinguano le “imprese minori” dalle altre, quali il fatturato o il totale di bilancio della società datrice al momento del licenziamento.