La condotta del dipendente che si assenta dal lavoro senza giustificare la propria assenza, omettendo di riscontrare le comunicazioni inviategli dal datore di lavoro che lo esortano al rientro in azienda, è censurabile in quanto tale agire ha come fine ultimo quello di imporre al datore di lavoro di procedere con il licenziamento e così ottenere il beneficio della Naspi. Assentarsi dal lavoro senza fornire alcuna giustificazione per indurre l’azienda ad adottare il provvedimento espulsivo del licenziamento per assenza ingiustificata e, così, ottenere il beneficio della Naspi, è – in base alla recente giurisprudenza di merito – una condotta da censurare. La stessa, infatti, comporta una spesa ingiustificata sia per il datore di lavoro, che è tenuto al pagamento del c.d. “ticket licenziamento”, sia per lo Stato, che eroga l’indennità di disoccupazione a favore di un soggetto che non si trovi, di fatto, in uno stato “involontario” di non occupazione. In tali casi, infatti, si dovrebbe ritenere chetale comportamento possa integrare gli estremi di una risoluzione per fatti concludenti. Recentemente, il Tribunale di Udine, sezione lavoro, con la sentenza del 27 maggio 2022, si è pronunciato proprio sul caso di un dipendente che si è assentato da lavoro, senza fornirne alcuna giustificazione, al fine di spingere il datore a licenziarlo per ottenere l’indennità di disoccupazione. Il Tribunale ha condannando la predetta condotta, ravvisando nel comportamento del lavoratore la risoluzione di fatto del rapporto e ciò a prescindere dal rispetto delle procedure telematiche delle dimissioni di cui all’articolo 26, del D.lgs. n. 151/2015. Il Giudice ha dato rilevanza alle circostanze che lasciavano trasparire la volontà del lavoratore di non dare più seguito al contratto di lavoro in quanto gli atteggiamenti tenuti facevano presumere che l’intento perseguito fosse unicamente quello di conseguire illegittimamente la Naspi, riconosciuta, come noto, solo in ipotesi di disoccupazione involontaria. Dal punto di vista normativo, in tema di dimissioni, la legge prevede che le stesse, nonché le risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro, debbano essere rassegnate, a pena di inefficacia, solo con modalità telematiche (articolo 26, D.lgs. n.151/2015). La predetta norma, a opinione del Tribunale di Udine, non può che disciplinare la sola ipotesi di una manifestazione della volontà risolutiva del lavoratore, rimanendo escluso dal suo campo applicativo il caso delle dimissioni implicite per comportamento concludente. Inoltre, il Giudice osserva come la previsione contenuta nell’art. 26 non determina l’abrogazione dei principi contenuti negli articoli 2118 e 2119 c.c., relativi alla libera recedibilità dal rapporto di lavoro a opera del lavoratore e che prevedono che non sia necessario palesare la volontà di recedere in un atto formale, ma sia sufficiente la manifestazione tramite condotte dalle quali emerga l’effettivo volere del soggetto. Nonostante, poi, la previsione della legge delega n. 183 del 2014, che già aveva previsto la necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente, il D.lgs. n. 151/2015 si è limitato a regolamentare il solo istituto delle dimissioni telematiche, omettendo di stabilire una regola in materia di risoluzione per fatti concludenti. Il silenzio della norma, però, non può far ritenere che tale risoluzione sia preclusa dall'attuale normativa. Segnaliamo, inoltre, che, già nel 2020, il medesimo Tribunale (sentenza n. 106/2020 del 30 settembre 2020) avesse avuto modo di pronunciarsi in merito alla stessa tipologia di condotta. In tale decisione, in particolare, il Giudice aveva stabilito che il lavoratore, il quale con assenze continue e non giustificate aveva costretto il datore di lavoro a procedere al licenziamento per giusta causa, è tenuto a restituire la somma erogata a titolo di ticket di ingresso alla Naspi. Secondo il Tribunale, il ticket per il licenziamento è, infatti, un onere che la società non deve sopportate nelle ipotesi in cui il lavoratore, anziché dimettersi, pone volutamente l’azienda nella posizione di risolvere il rapporto. Le pronunce del Tribunale di Udine, oggetto di odierno esame, sottolineano come, pur nella vigenza dell’art. 26, del D.lgs. n. 151/2015, la risoluzione per fatti concludenti del rapporto di lavoro sia ancora invocabile dall'azienda che intenda sostenere che il rapporto di lavoro sia cessato per iniziativa del lavoratore, al quale, pertanto, non spetterà alcuna indennità per il successivo stato di disoccupazione (volontaria).