Legittimità del licenziamento per utilizzo personale dei permessi sindacali

12 Gennaio 2023

Il dipendente cui siano assegnati ruoli che ne giustifichino la partecipazione ad organi sindacali ha il diritto di ottenerne i relativi permessi, nonché il dovere di utilizzarli al solo scopo imposto da tale tipo di attività. Con l’Ordinanza n. 26198/2022, la Corte di Cassazione ha chiarito che sfruttare un tale privilegio per motivazioni personali è un elemento che si aggiunge all’assenza ingiustificata dal posto di lavoro, che aggrava le conseguenze sanzionatorie da applicare a tale condotta e che la caratterizza come vero e proprio abuso di un diritto e, pertanto, legittima il licenziamento del dipendente coinvolto.

Un dipendente di una Società, cui era affidata la funzione di componente di organo direttivo (come identificati all’art. 30, Statuto dei Lavoratori), aveva ottenuto, ai sensi della medesima previsione normativa, il riconoscimento di un permesso sindacale che gli consentisse la partecipazione alla relativa assemblea. Tuttavia, il permesso così ottenuto era stato, in realtà, fruito per motivazioni personali e, dunque, diverse da quelle appena indicate, come confermato anche dalle relative testimonianze rilasciate in corso di causa. Sulla base di tali motivazioni, la Società procedeva, pertanto, al licenziamento del dipendente coinvolto, per giusta causa.

Impugnato il provvedimento espulsivo da parte di quest’ultimo, il Tribunale adito ne confermava, tuttavia, la legittimità, ritendendo che la condotta del lavoratore non potesse sussumersi nella generale categoria della mera assenza ingiustificata (punita con sanzioni di natura conservativa), ma dovesse essere identificata come quella più grave della violazione causata dall’abuso di un diritto, riconosciuto al dipendente in quanto rappresentante sindacale e sfruttato, ingiustamente, a proprio vantaggio e scapito della Società stessa. Di conseguenza, il licenziamento del dipendente risultava legittimo. La medesima valutazione veniva, poi, confermata anche dalla Corte d’Appello, altresì investita del caso.

Infine, il dipendente ha, successivamente, sottoposto la questione al vaglio della Suprema Corte di Cassazione, ritenendo che la condotta posta in essere dovesse configurarsi come una semplice assenza ingiustificata dal posto di lavoro ed essere in quanto tale sanzionata proporzionalmente, come sancito dal CCNL applicato al rapporto di lavoro, nel quale è prevista la comminazione del licenziamento al lavoratore che resti assente dal lavoro, ingiustificatamente, per un periodo superiore a cinque giorni – caso, a detta dell’attore, non rientrante nella fattispecie in esame, in quanto allo stesso era stato concesso un permesso di un solo giorno lavorativo.

Nel valutare le circostanze del caso di specie, gli Ermellini, con Ordinanza n. 26198/2022, hanno confermato gli indirizzi del Tribunale prima e della Corte territoriale poi, valutando di gran lunga più grave la condotta del dipendente. Ciò, poiché deve considerarsi, nella valutazione dei fatti de quo,non la mera assenza dal lavoro, ma l’ulteriore abuso, perpetrato dal lavoratore ai danni del proprio datore, coincidente nell’utilizzo del permesso sindacale per finalità diverse da quelle istituzionali. Tale quid pluris, a detta della Suprema Corte, vale ad escludere la riconducibilità della condotta posta in essere dal dipendente alle norme collettive che puniscono con sanzione conservativa l’assenza, la mancata presentazione o l'abbandono ingiustificato del posto di lavoro.  

A nulla è valso il tentativo del dipendente di identificare come sproporzionata, anche a prescindere dal riferimento alle norme della contrattazione collettiva, la sanzione del licenziamento rispetto alle condotte effettivamente poste in essere. In tal senso, la Suprema Corte ha chiarito che le azioni del lavoratore abbiano avuto delle inevitabili conseguenze sulla fiducia di cui lo stesso godeva in precedenza, che non possono che investire “la generalità dei possibili futuri inadempimenti del lavoratore”.

L’Ordinanza in esame risulta di particolare interesse in quanto offre una valida chiave di lettura per la valutazione delle condotte tenute dai dipendenti nei procedimenti disciplinari che li coinvolgono. In particolare, appare necessario, alla luce degli insegnamenti di cui al documento in oggetto, tenere conto della rilevanza che esse assumono con riferimento all’interezza del rapporto di lavoro e non, dunque, fermarsi all’apparenza della singola norma collettiva violata. Nell’Ordinanza in esame, gli Ermellini hanno letto nel comportamento fraudolento del lavoratore non solo il danno economico potenzialmente causato alla Società, che avrebbe retribuito un’assenza apparentemente giustificata, ma la chiara volontà del dipendente di sfruttare un privilegio concessogli in virtù di un ruolo tutelato dallo Statuto dei Lavoratori, e strumentalizzato al fine di svolgere attività di carattere puramente personale.

La Suprema Corte ha ritenuto le conseguenze di una tale condotta sufficienti a rompere il legame fiduciario tipico del rapporto di lavoro, superando la lettera delle prescrizioni collettive e applicando la logica delle regole sociali che, pure, devono essere riferimento costante per gli operatori del diritto del lavoro.    

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