C’è spazio per il furlough nel diritto del lavoro italiano?

26 Maggio 2023

In ambito di rapporti di lavoro che presentino delle caratteristiche internazionali, non è raro che si renda necessario stabilire se alcuni istituti, utilizzati in uno dei Paesi coinvolti, possa essere implementato anche nell’altro, o se vi siano altri istituti simili da poter applicare al suo posto. Il furlough non fa eccezione: di seguito, una breve analisi delle sue caratteristiche e di come esso si relazioni all’impianto giuslavoristico italiano.

Il furlough è un istituto tipico del diritto anglosassone e statunitense ed è definito come quel periodo di tempo durante il quale una società mette in pausa il rapporto di lavoro con uno dei propri dipendenti, per un periodo di tempo che, di norma, resta determinato, così da non fruire della prestazione lavorativa di quest’ultimo e, di conseguenza, venire meno rispetto all’obbligo retributivo nei confronti del lavoratore verso cui il furlough opera.

Tale facoltà del datore di lavoro dove essere definita pattiziamente con il lavoratore interessato, che accetta di smettere di prestare la propria attività lavorativa per un periodo di tempo determinato, pur rimanendo formalmente alle dipendenze del datore.

Secondo le regole del diritto inglese, tale istituto si applica ai dipendenti o lavoratori a diverso titolo, con contratti a tempo parziale e a tempo pieno, coinvolgendo, altresì, lavoratori somministrati e apprendisti.

Nella scelta del lavoratore da sottoporre a regime di furlough, il datore ha il dovere di evitare di agire in maniera discriminatoria. Dall’altro lato, tuttavia, il lavoratore è obbligato ad accettare la proposta di furlough, a meno che non sia prevista una esplicita clausola di risoluzione espressa all’interno del contratto di lavoro vigente tra le parti.  

Le regole statunitensi, a loro volta, richiedono che l’accordo di furlough sia redatto per iscritto e contenga la data di inizio e di fine del relativo periodo, le modalità attraverso le quali il lavoratore sottoposto a tale regime possa essere ricontattato dal datore affinché riprenda la propria attività (in base alle necessità aziendali), nonché le tempistiche in base alle quali si potrà effettuare la revisione delle condizioni concordate.

Nonostante il periodo di furlough si consideri tendenzialmente non retribuito, ove le parti abbiano stabilito un trattamento migliorativo per il lavoratore – e, dunque, un riconoscimento economico – anche tale previsione deve essere inserita nel relativo accordo. Con particolare riferimento al quantum del pagamento, inoltre, secondo la normativa del Regno Unito, il datore di lavoro sarà, in ogni caso, rimborsato dall’autorità finanziaria competente con una somma totale pari all’80% (o, alternativamente, sino a £ 2,500, ove inferiore) per gli importi corrisposti durante il periodo di fruizione del furlough da parte del dipendente. Su base puramente discrezionale del datore – ma, ove decidesse diversamente, dovrebbe darne espressa motivazione al lavoratore interessato – egli può stabilire liberamente di corrispondere il restante 20% della retribuzione di norma percepita al dipendente coinvolto.

Durante il periodo di furlough – per il quale è, di norma, prevista una durata minima di almeno 7 giorni fino a un massimo di 12 mesi – il lavoratore resta formalmente alle dipendenze del proprio datore di lavoro. Nei casi in cui quest’ultimo intenda prolungare o concludere il periodo di assenza del dipendente, ciò deve essere previsto da un ulteriore accordo scritto tra le parti coinvolte. Ove ricorra tale ultimo scenario, non c’è un periodo di preavviso minimo richiesto, ma è consigliabile che le modalità di ritorno presso il posto di lavoro vengano discusse il prima possibile, così da evitare potenziali criticità causate dal periodo di assenza del dipendente.

Infine, i lavoratori che siano sottoposti a regime di furlough con riferimento a un datore di lavoro, possono prestare diversa attività lavorativa alle dipendenze di un altro imprenditore. Nel caso in cui tale periodo venga interrotto dal datore di lavoro che abbia imposto la sospensione lavorativa nei termini de quo, questi deve comunque rimanere disponibile alla ripresa di tale attività.  

All’esito della breve disamina appena riportata, sembrerebbe che il furlough anglosassone, per come sopra descritto – in considerazione, soprattutto, della significativa flessibilità con la quale le parti possano decidere, vicendevolmente, di fruirne – sia difficilmente implementabile nel contesto italiano (e infatti, come è noto, esso non esiste nel nostro ordinamento).

Una valida alternativa potrebbe essere l’istituto del congedo non retribuito, genericamente inteso, attraverso il quale è possibile consentire ai lavoratori di assentarsi temporaneamente dal posto di lavoro. Tuttavia, esso è previsto unicamente con riferimento a specifiche categorie di dipendenti, e concesso solo ove ricorra il rispetto di determinati requisiti, individuati sulla base delle previsioni normative dei CCNL applicabili ai rapporti di lavoro in argomento (ad esempio, per motivi personali tassativamente previsti dalla legge), durante il quale i dipendenti coinvolti mantengono, per tutta la sua durata, il diritto alla conservazione del posto di lavoro.

Resta, comunque, ferma la possibilità per le parti di convenire, nel corso del rapporto, un congedo o un periodo di aspettativa non retribuita, pur rimanendo il lavoratore vincolato – ai sensi dell’art. 2105 del cod. civ. – al dovere di fedeltà nei confronti della società datrice di lavoro (essendo, così, impedita la possibilità di svolgere altra attività di lavoro in concorrenza con la stessa).

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