Speciale sul Referendum abrogativo dell’8 e 9 giugno

4 Giugno 2025

Con il presente contributo si offre una disamina della normativa giuslavoristica oggetto dei quesiti dei Referendum abrogativi del prossimo 8 e 9 giugno – la quale rimarrebbe inalterata in caso di vittoria del NO – e i mutamenti che seguirebbero alla vittoria del SI, con una breve rassegna, in relazione a ciascun quesito, delle ragioni sottese ad entrambi gli orientamenti di voto, così da cogliere le potenziali conseguenze giuridiche e pratiche delle scelte che saremo chiamati ad compiere alle urne.

Quesito 1: Licenziamenti illegittimi nelle grandi imprese.

Nell’ipotesi in cui prevalga il NO, rimane in vigore l’attuale disciplina del Jobs Act e, quindi, in caso di licenziamento illegittimo di un lavoratore assunto a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015, in un’impresa con almeno 16 dipendenti, l’ex lavoratore potrebbe ottenere un’indennità compresa tra sei e trentasei mensilità, parametrata agli anni di anzianità lavorativa maturati presso il datore di lavoro. Nei casi più gravi, invece (e.g., licenziamento discriminatorio), il datore viene condannato al risarcimento del danno nei confronti del lavoratore (pari, almeno, a cinque mensilità) e alla reintegra dello stesso, in alternativa alla quale il lavoratore può optare per un’indennità economica pari a quindici mensilità.

Qualora prevalesse il SÌ, si applicherebbe l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla Legge Fornero. Pertanto, a parità di condizioni, in caso di licenziamento illegittimo del lavoratore, questi avrebbe diritto ad una indennità compresa tra dodici e ventiquattro mensilità. La Legge Fornero prevede un ventaglio più ampio di casi in cui trova applicazione la tutela reintegratoria, con la differenza che, in questi ultimi, vige il limite di dodici mensilità al risarcimento del danno. La Legge Fornero è attualmente in vigore per i soli lavoratori assunti a tempo indeterminato, prima del 7 marzo 2015, in imprese con più di quindici dipendenti. Si noti, peraltro, che Legge Fornero è tuttora in vigore per i lavoratori assunti a tempo indeterminato, prima del 7 marzo 2015, in imprese con più di quindici dipendenti.

Considerazioni sul primo quesito.

I sostenitori del NO ritengono che l’attuale normativa consenta alle società di prevedere con maggiore facilità i costi legati ad un eventuale licenziamento. In uno scenario di maggiori certezze sull’effettività e sui costi di eventuali futuri esuberi, ossia di maggiore flessibilità del mercato del lavoro in uscita, che scongiuri le paure delle imprese di vedersi costrette a dover riassumere dei lavoratori in esubero, si sostiene che il Jobs Act abbia incentivato le assunzioni di nuovi lavoratori. Inoltre, avendo il Jobs Act armonizzato la normativa italiana a quella degli altri ordinamenti europei, i sostenitori del NO ritengono che mantenere tale assetto potrebbe costituire un incentivo per le grandi imprese multinazionali ad avviare nuove attività in Italia. Va notato, infine, che l’attuale normativa conserva la tutela della reintegra per i casi più gravi di nullità del licenziamento, pur riconoscendo una tutela indennitaria più cospicua di quella accordata dalla precedente legge Fornero.

I sostenitori del SÌ ritengono che il Jobs Act, limitando l’applicazione della tutela della reintegra ai soli casi di nullità del licenziamento, abbia ridotto le protezioni storicamente accordate ai lavoratori italiani dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Tale differente tutela risulta particolarmente evidente, ad esempio, nelle procedure di licenziamento collettivo: la violazione dei criteri di scelta, infatti, per gli assunti post marzo 2015, non determina la reintegra, ma la sola tutela indennitaria.

Quesito 2: Licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese

In caso di vittoria del NO, rimane in vigore la legge n. 108/1990, la quale prevede che, nelle ipotesi di licenziamento illegittimo di un lavoratore assunto a tempo indeterminato presso un’impresa che occupa meno di 16 dipendenti, verrà riconosciuta al lavoratore una indennità che va da 2,5 a 6 mensilità.

Se prevalesse il SÌ, verrebbe parzialmente abrogata la legge n. 108/90, nella parte in cui limita a sei mensilità la tutela massima del lavoratore che venga licenziato senza giusta causa o giustificato motivo, lasciando esclusivamente all’apprezzamento del giudice la determinazione dell’indennità (che non potrà, in ogni caso, essere inferiore a due mensilità e mezzo), senza che sia previsto per legge alcun valore massimo della tutela indennitaria.

È fatta salva, in ogni caso, la tutela reintegratoria del dipendente nei casi di nullità del licenziamento, oltre al risarcimento del danno, che il giudice dovrà quantificare in una somma non inferiore a cinque mensilità.

Considerazioni sul secondo quesito.

I sostenitori del NO credono che eliminare il limite di sei mensilità porti al paradosso per cui, mentre nelle imprese con più di quindici dipendenti esiste un limite (trentasei mensilità con il Jobs Act, ventiquattro mensilità con la Legge Fornero) entro il quale la tutela indennitaria debba essere riconosciuta, per le imprese con meno di sedici dipendenti non vi sarebbe alcun limite. In questo modo, la tutela verrebbe determinata interamente su apprezzamento del giudice adito, imponendo ai piccoli imprenditori una situazione di assoluta imprevedibilità dei costi connessi a un licenziamento che finirebbe per disincentivare in modo drastico l’assunzione di nuove risorse. Inoltre, proprio per le imprese di minore dimensione l’ipotesi di risarcimenti esemplari rischierebbe maggiormente di determinare squilibri economici potenzialmente critici per la stessa continuità dell’attività d’impresa.

I sostenitori del SÌ ritengono sproporzionato limitare a sei mensilità la tutela indennitaria da corrispondere a un lavoratore licenziato da un’impresa per il solo fatto che quest’ultima abbia meno di sedici dipendenti. Chi sostiene l’abrogazione del predetto limite, crede non solo che le innovazioni tecnologiche consentano, a oggi, anche alle imprese con meno di sedici dipendenti, di essere competitive e redditizie a livello tale da rendere ingiustificato il limite di tutela in questione, ma che la dimensione aziendale non debba incidere sul diritto del lavoratore licenziato illegittimamente ad ottenere un’indennità pari a quella di un qualunque altro lavoratore assunto presso un’impresa più grande.

Quesito 3: Impiego di contratti a termine senza obbligo di specificare alcuna causale

Se la consultazione referendaria dà esito negativo, rimane in vigore la normativa attuale, la quale consente al datore di lavoro di non specificare alcuna causale per i primi dodici mesi di assunzione di un lavoratore con contratto di lavoro subordinato a termine. Pertanto, tale scelta del datore è attualmente insindacabile in sede giudiziale.

In Caso di vittoria del SÌ, verrebbe, invece, abrogata una parte delle norme di cui al D. Lgs. n. 81/2015, con la conseguente reintroduzione dell’obbligo di causale anche per i primi dodici mesi di rapporto di lavoro a tempo determinato, in virtù del quale il datore di lavoro dovrà specificare le ragioni per le quali ricorra a tale tipologia contrattuale (e non, invece, ad un contratto di lavoro a tempo indeterminato), utilizzando quelle stabilite dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento.

Considerazioni sul terzo quesito.

I sostenitori del NO ritengono che l’attuale assetto sia in linea con la normativa degli altri stati europei e consenta, peraltro, alle imprese di valutare in modo più attento le competenze e le abilità di un lavoratore, rispetto al solo periodo di prova, ritenuto spesso insufficiente a tal fine, prima di procedere all’assunzione a tempo indeterminato di una risorsa. Inoltre, i sostenitori del NO rilevano che, secondo i dati pubblicati annualmente dall’ISTAT, tale possibilità non abbia comportato, nel medio periodo, una flessione del numero di stipule di contratti di lavoro a tempo indeterminato, e che, pertanto, da tali dati si evinca che i lavoratori assunti mediante un contratto di lavoro a termine, non solo godano delle medesime tutele dei lavoratori impiegati a tempo indeterminato, ma vengano anche successivamente stabilizzati in gran parte dei casi.

I sostenitori del SÌ ritengono che i datori di lavoro ricorrano troppo spesso a tale tipologia contrattuale – che non dà certezza di continuità professionale al lavoratore – al solo fine di evitare la conclusione di contratti di lavoro a tempo indeterminato e, quindi, di costituire rapporti meno vincolanti. I sostenitori del SÌ ritengono, quindi, che, reintroducendo l’obbligo di causale anche per i primi dodici mesi di utilizzo dei contratti di lavoro a termine, sarà più complesso, per il datore che agisca con le finalità menzionate, sfruttare tale tipologia contrattuale e, quindi, le società saranno portate a ridurne l’utilizzo in favore di un numero maggiore di contratti di lavoro a tempo indeterminato.

Quesito 4: Estensione della corresponsabilità del committente per gli infortuni da rischi propri dell’appaltatore

Se prevalesse il NO, rimarrebbe in vigore la normativa attuale (art. 26, comma 4, del D. Lgs. n. 81/2008), la quale attribuisce al committente la responsabilità, in solido con l’appaltatore, per il pagamento degli stipendi, dei contributi e per il risarcimento di danni derivanti da infortuni che si verifichino durante l’esecuzione dell’appalto. Rispetto a tale ultimo punto, la norma prevede un’eccezione a detta regola, secondo la quale il committente possa essere sollevato dalla menzionata co-responsabilità nei casi di danni da infortunio derivanti dal verificarsi di rischi specifici propri dell’attività dell’impresa appaltatrice, ossia nei casi in cui l’infortunio si realizzi durante l’esecuzione di un’attività propria dell’appaltatore, che nulla abbia a che fare con quella tipica del committente.

In caso di vittoria del SÌ, verrebbe abrogata l’eccezione sopra indicata, prevista nella parte finale dell’art. 26, comma 4, D. Lgs. n. 81/2008 e, pertanto, il committente sarà considerato responsabile in solido per tutti gli eventi accidentali occorsi ai dipendenti coinvolti nel relativo appalto, anche per i danni subìti dai lavoratori dell’appaltatore (o del subappaltatore) in relazione a infortuni strettamente connessi ai rischi tipici dell’attività del solo appaltatore (o subappaltatore).

Considerazioni sul quarto quesito.

I sostenitori del NO ritengono eccessivo estendere al committente la responsabilità per il danno da infortunio, verificatosi nell’ambito di rischi propri dell’attività dell’appaltatore (o del subappaltatore) e completamente estranei al committente. Infatti, secondo tale posizionamento, si rischia di attribuire una responsabilità in capo a un soggetto che, di fatto, non avrebbe neanche le conoscenze tecniche per poter sindacare l’adeguatezza delle misure di sicurezza adottate dall’appaltatore per lo svolgimento di una determinata attività lavorativa, dovendosi, quindi, munire di apposite figure interne o ingaggiarne di esterne per poter adempiere a un tale dovere di vigilanza.

I sostenitori del SÌ ritengono, invece, che l’estensione al committente della responsabilità per il danno derivante da un infortunio verificatosi durante lo svolgimento di un’attività di impresa tipica dell’appaltatore (o del subappaltatore) sia un incentivo ulteriore per il committente a vigilare e ad assumere più adeguate misure di prevenzione di tali eventi e, di conseguenza, ciò potrebbe offrire una tutela aggiuntiva al singolo dipendente infortunato nonché alla salute e sicurezza di tutti i lavoratori.

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